REPRESENTACION DEL DESENCLAVAMIENTO DE LA CRUZ

Lezioni condivise 111 –  Antoni Maria de Stersili

 30 Apr 2016 @ 11:55 PM

Il ripensamento sulla Storia della letteratura (nel territorio dello stato italiano) è iniziato solo negli anni Cinquanta del secolo scorso e non si è ancora compiuto del tutto. Prevale ancora una concezione centralista, pertanto accentratrice, che privilegia la lingua ufficiale e lega troppo spesso la letteratura alla ragion di stato, avente origine in quell’unità non sentita dai popoli e voluta solo da pochi nel 1861. Da allora diverse illiceità hanno generato una lunga serie di norme e atti impopolari, servendosi dell’uso della forza o approfittando del lassismo diffuso. Il resto è stata sovversione che a volte ha vinto, altre si è imposta, ma mai in maniera stabile e duratura, essendole stata opposta la forza delle armi, delle bombe e delle stragi, anche per indirizzare il modo di pensare e la cultura. Sappiamo, perché ne siamo testimoni, di come lo stato abbia sempre trattato le lingue locali, come ne abbia sempre proibito l’ingresso nella scuola, perpetrando l’ignoranza e impedendo la conoscenza linguistica corretta, almeno come bagaglio culturale di ciascun individuo.

Nell’ambito del cammino di riappropriazione della nostra cultura, della nostra letteratura, del nostro teatro, nel corso dell’anno accademico è stato tenuto in modo permanente un laboratorio teatrale con la partecipazione attiva del prof.

L’attività, conclusa con il saggio – la rappresentazione dei colleghi/attori -, si è come trasfigurata in un’esistenza parallela dello stesso sapore; non dico nel palco calpestato fin da bambini o nelle commedie di Antonio Garau, Efisio Vincenzo Melis e altri, seguite come eventi da ragazzi, ma certo nelle Compagnie teatrali sarde itineranti, accolte nei loro tour nei vari comuni dell’isola, dal primo teatro d’avanguardia, quello che trattava in maniera drammatica o sarcastica del diritto al lavoro o le rappresentazioni storiche di Francesco Masala e del Teatro di Sardegna, “Su connotu”, “Sos laribiancos”, fino alle abbuffate da uno spettacolo al giorno con tutte le maggiori compagnie sarde: Is mascareddas, Cada die, Actores alidos, La maschera, La botte e il cilindro, Crogiulo, Lucido sottile, Mario Medas, Fueddu e gestu e la lista potrebbe continuare ancora a lungo. Mettiamoci dentro anche Dario Fo, da “Guerra di popolo in Cile” e “Mistero buffo”, fino alla recente lezione in aula magna, con il ritrovare colleghe sparite da mesi, magari di quella Trexenta che vanta in tema gloriose tradizioni.

Il saggio ha risvegliato una certa nostalgia, è stato sobrio, ma sentito e toccante, nonché impegnativo, quanto di un’eccentrica suggestione, con quei costumi di scena essenziali e l’azione sulle poltroncine dell’aula magna del Corpo aggiunto. Si è rappresentato il Desenclaviamento de la cruz di Antoni Maria de Stersili (1688).

Sorvolando sul periodo proto sardo, la scrittura in Sardegna è documentata fin dal periodo fenicio-punico, cui seguì la latinizzazione e la coesistenza del sardo con tutte le lingue che introdussero i vari dominatori successivi, principalmente il greco/bizantino, catalano e spagnolo.

Visto che siamo in tema, è lecito citare uno dei primi documenti di età romana, la tavola di Esterzili, recante un decreto del proconsole Lucio Elvio Agrippa e risalente al 18 marzo del 69 d.C., imperatore Otone, relativa a una controversia legale tra le popolazioni arcaiche.

In seguito vennero i Carmina nella necropoli di Tuvixeddu (Grotta della Vipera): Dalle tue ceneri, Pontilla fioriscano viole e gigli… gli scritti di San Lucifero e Sant’Eusebio, nonché San Fulgenzio, in età vandalica, diversi codici, le Passioni dei martiri San Saturno, San Lussorio e San Gavino, le vicende agiografiche di Sant’Antioco e San Giorgio.

Intorno al 1000 il sardo venne usato nei documenti ufficiali dei Judikes, in atti notarili, nella stesura delle leggi, nei Condaghi. I documenti cominciarono a essere tanti, tra cui gli Statuti Sassaresi, e nel Trecento il documento più noto la Carta de logu.

La prima opera letteraria pervenuta a noi in lingua sarda può essere considerata Sa vita et sa morte, et passione de sanctu Gavinu, Prothu et Januariu di Antonio Cano ed è un poemetto del Quattrocento.

Del Cinquecento si conservano più scritti: Los diez libros de Fortuna de Amor di Antonio Lo Frasso, citata anche nel Don Chisciotte di Miguel de Cervantes; in quel periodo molti autori scrivevano anche in Castigliano, come Sigismondo Arquer, Giovanni Francesco Fara, Gerolamo Araolla, con l’eccezione di Pietro Delitala (italiano).

Ed eccoci al Seicento, il secolo del nostro testo, tra gli autori, Giuseppe Delitala y Castelvì, Josè Zatrilla, lo storico Francesco Angelo de Vico, Salvatore Vidal, e siamo quasi in epoca contemporanea con una storia letteraria conosciuta e documentata.

Non bisogna dimenticare la poesia estemporanea sarda che rappresenta un patrimonio che nel corso di tanti secoli in parte si è perso. Ne trattò Matteo Madao nel 1787 ed è da citare la meritoria opera dell’altrettanto estemporaneo editore Antonio Cuccu (1921-2003). Diversi autori hanno trattato l’argomento in passato e l’hanno sviscerato nel presente.

Il segno letterario non può prescindere dal suo sostrato, che è il codice linguistico.  Ciò ha permesso di rivalutare tutte le lingue naturali e di studiare con maggiore competenza le lingue e le letterature delle minoranze.

Oggi non ha più senso parlare di letteratura italiana o di letteratura sarda, quanto semmai di comunicazione letteraria degli italiani e dei sardi, ossia di sistemi letterari policentrici la cui identità si è storicamente e geograficamente affermata grazie al contributo di più lingue e di più culture.

I poemi agiografici non furono marginali nella cultura umanistico-rinascimentale, come potrebbe far pensare la scarsa attenzione che oggi si riserva loro. Sono un’opera contigua, non incardinata alla liturgia, che sta dentro la ricca produzione devozionale legata alla celebrazione dei santi. La linea di demarcazione che separava i non alfabetizzati dagli alfabetizzati, almeno fino agli inizi del Settecento, doveva essere più o meno la stessa che divideva i sardofoni da coloro che parlavano altre lingue. La competenza degli altri codici, come il catalano e il castigliano, era patrimonio di una minoranza. Per la comunità di parlanti esse esistevano prevalentemente come lingue scritte, veicolo del potere e della cultura dotta.

Non è improbabile che, per lungo tempo, i testi che venivano scritti fossero destinati alla recitazione e al canto e nello stesso tempo concepiti in previsione di una duplice diffusione: scritta e orale.

Il Cano, mediante la variante logudorese adottò una via mediana tra l’accento fortemente religioso delle Passiones e i modi della tradizione orale della poesia religiosa sarda.

Anche Gerolamo Araolla scrisse in logudorese, un poema sacro di duecentocinquanta ottave in rima alternata e baciata, dal titolo (simile a quello del Cano) Sa vida, su martiriu et morte dessos gloriosos martires Gavinu, Brothu et Gianuariu, pubblicato nel 1582 a Cagliari, in quel periodo opere del genere furono numerose fino a Seicento inoltrato.

Il sardo costretto sempre più nei contesti comunicativi propri dell’oralità, trovò canali, spazi espressivi e circolazione testuale (orale e scritta), soprattutto negli ambiti della cultura e religiosità popolare. Soprattutto il clero continuò a parlarlo con la massa dei fedeli. L’ecclesiastico di rango poteva conoscere, oltre il latino e il sardo, anche il catalano, il castigliano e l’italiano: il castigliano perché lingua ufficiale dei nuovi dominatori, il latino in quanto cardine della funzione sacra, oltre che fondamento della classicità, veicolo della cultura scritta e principale serbatoio di modelli sintattici e retorici.

Tra Cinquecento e Seicento la poliglottìa degli intellettuali sardi, chierici e laici, costituiva, dunque, un elemento fondamentale per la generale comprensione della comunicazione letteraria in Sardegna.

Tra questi, e siamo al punto, frate Antonio Maria da Esterzili (1644-1727), il cui nome resta legato all’opera in versi Representacion del desenclaviamento de la cruz, compose in sardo-campidanese con didascalie in castigliano.

Le opere di molti autori, a partire dal XV secolo, attestano questo plurilinguismo e i loro testi risultano permeati, soprattutto nel contingente lessicale, di elementi allogeni. Latinismi, italianismi e iberismi non di rado coesistono in un rapporto simbiotico col mutante elemento indigeno e con le sue strutture organizzative più profonde. Una questione filologica legata al rapporto tra sistema grafematico e sistema fonematico. Quale contenuto fonico corrisponde a talune realizzazioni grafiche? Quale scrittura? Quale lettura? Quale pronuncia? La lingua sarda solo nella seconda metà del Novecento ha iniziato a conoscere una sia pur minima normalizzazione grafica e ortografica grazie ai premi letterari.

Di fra Antonio Maria da Esterzili sappiamo poco, non conosciamo il cognome, né abbiamo notizie certe sui luoghi ove visse e si formò, escluso il fatto che sicuramente trascorse dei periodi della sua vita a Iglesias, Sanluri e Cagliari. Tra le poche notizie pare certo che il frate venne accusato e punito dagli organi ecclesiastici per un “crimine pessimo”. Secondo alcuni studiosi si tratta di un reato politico oppure a sfondo amoroso. Eppure il frate occupa un posto importantissimo nella storia letteraria della Sardegna in quanto è da considerarsi il primo drammaturgo e commediografo della storia del teatro in lingua sarda. L’Archivio storico di Cagliari ha conservato diverse opere a lui riconducibili che hanno un inestimabile valore culturale. Il titolo completo di questa raccolta è il Libro de comedias escripto in sardo por Fray Antonio Maria de Estercili, sacerdote capuchino en Sellury, año 1688: Conçueta del nascimento del Christo, Comedia de la Pasion de N.ro Señor Christo, Representacion de la comedia del desenclavamiento de la cruz de Christo nuestro Señor, Versos que se representan el dia de la resurreccion, Comedia grande sobre la Assumption de la Virgen Maria Señora nuestra a los cielos.

(Storia del teatro e dello spettacolo – 12.5.1997) MP

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REPRESENTACION DEL DESENCLAVAMIENTO DE LA CRUZ
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Dominique
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GEROGLIFICI DIVERSI

Lezioni condivise 106 – Antidramma e altre storie

 30 novembre 2015 @ 18,30

Ieri notte (quale notte? la stesura di questo pezzo ha visto tante notti) avevo iniziato a guardare il film Muse (La settima musa) di Jaume Balagueró; l’inizio sembrava interessante, poi una scena altamente drammatica lo trasforma in film horror… Senza grandi ripensamenti ho interrotto la visione.

Dovrei parlare appunto di dramma, anzi di antidramma; cosa non è dramma se non la storia di una ragazza che ha una relazione segreta con il prof di Letteratura e dopo averci fatto l’amore, fattolo giurare di amarla in eterno, si fa trovare esangue nella sua vasca da bagno? O è antidramma?

Il dubbio può sorgere perché in senso teatrale i due concetti non sono esattamente opposti, come apparirebbe evidente sotto il profilo linguistico, espressivo, insomma non è come la dicotomia tra horror e commedia.

Del dramma come drammatizzazione ho già trattato ampiamente nelle lezioni 67 e 74.

L’antidramma fa parte del genere, soprattutto teatrale, “drammatico” (contemporaneo), ma si oppone al dramma perché ne nega gli atteggiamenti, la finzione, l’illusione, per assumere una realtà verosimile e la negazione dei valori stabiliti. Adotta il surreale e non i tipici “colpi di teatro”, abbandona la causalità per l’illogicità, introduce l’antieroe, l’eloquenza, il gioco di parole, l’assurdo, le ripetizioni, il grottesco, è imprevedibile.

Negli anni Sessanta del secolo scorso, si comincia a parlare di “nuova scrittura”, dove la parola è segno, non solo immagine astratta della cosiddetta “poesia concreta”. Si tende ad esaltare la manualità, materialità, iconicità della scrittura, fino al disegno e alla pittura, alla nascita della poesia tecnologico-visiva. Gli artisti che vi si esprimono talvolta neppure usano la parola scritta, ma solo il segno e/o il disegno, sono tradizionalmente pittori e poeti o entrambe le cose. Tra gli altri cito Paolo Albani, Mirella Bentivoglio, Irma Blank, Ketty La Rocca, Betty Danon, Lamberto Pienotti, Patrizia Vicinelli; tante donne. Si entra nel terreno della semiotica, lo studio dei segni.

Anche nel teatro il Novecento ha accolto delle avanguardie, accantonando i generi epico, drammatico, melodrammatico in quanto tali, per accogliere le opere di Henrik Ibsen, Bertold Brecht, Pirandello (antesignani dell’antidramma).

Del resto, il testo antitragico esiste fin dai tempi di Platone che lo attuò clamorosamente nel suo “Apologia di Socrate”, dove il filosofo, condannato a morte, chiede di andare in bagno a lavarsi per evitarne l’incombenza a chi avrebbe dovuto provvedervi dopo l’esecuzione: è fino in fondo padrone di se stesso.

Per la comprensione del nuovo teatro occorre intendere il suo conflitto con il dramma e dunque separarlo da esso, ovvero distinguere tra teatro drammatico e postdrammatico, non in relazione al testo, ma al comportamento espressivo. Il testo, quando c’è, è una delle tante componenti del nuovo teatro. Vi è stato un processo storico del teatro, da quando il testo non era presente, ma era solo rito, mimesi, danza. Con l’avvento del testo, esso prese il dominio su tutto, compresa l’azione scenica, che in realtà è il teatro. Il teatro era fuso nel testo, nel dramma.

Il teatro postdrammatico nasce alla fine del XX secolo, con un percorso preceduto da avanguardie (XIX sec.) e neoavanguardie (anni Sessanta e Settanta). Come già osservò Walter Benjamin, a proposito de “Le Affinità elettive” di Goethe, non è il linguaggio, ma il superamento del medesimo, la rappresentazione, che è vero “dramma” (nel senso di teatro, agone, pantomima). Il dramma secondo la sua definizione storica comincia ad entrare in crisi alla fine dell’Ottocento. Ma per poter intravedere un teatro postdrammatico si deve attendere Brecht, non solo testo, ma una sorta di regia.

Heiner Müller ha dichiarato addirittura che “un testo teatrale è valido solo se per il teatro già esistente è impossibile da mettere in scena”. Così si arriva a definire l’incompatibilità tra teatro e dramma. Edward Gordon Craig ne “L’arte del teatro”, sostiene che Shakespeare non dovrebbe essere messo in scena, e quando lui stesso lo fece, dichiarò di avere avuto la conferma dell’irrappresentabilità, in quel caso, di “Amleto”, ovvero la letteratura teatrale è una cosa, il teatro un’altra. In un testo, vi sono elementi come la poesia e altre qualità, che non devono trovare spazio in una rappresentazione teatrale.

All’inizio del Novecento si hanno precursori in Gertrude Stein, Robert Wilson, Antonin Artaud, Stanislaw Ignacy Witkiewicz, con forme testuali essenziali, decostruite. E’ solo l’inizio, ma l’avvento del Cinema pone al teatro nuovi problemi, definirsi come arte specifica, e la sua specificità è la presenza sul palcoscenico. Il teatro di regia è un altro passo verso il teatro postdrammatico. Possiamo indicare qui oltre a Craig, altri come Cechov e Stanislavskij, Claudel e Copeau.

Con la neoavanguardia si comincia a intravedere il teatro postdrammatico, ne sono anticipatori John Cage, Merce Cunningham, Allan Kaprow, poi Beckett, Ionesco, Sartre e Camus. Si stabiliscono varie connessioni tra teatro dell’assurdo e filosofia, esistenzialismo, surrealismo, espressionismo astratto, provocazione e protesta, che coinvolge tutte le arti. Ne sono principali esponenti Kafka, Peter Weiss, Konrad Swinarski e Peter Brook e siamo gia a metà anni Sessanta. In questi anni si afferma un nuovo spirito sperimentale che culmina nel movimento del Sessantotto. E’ attiva soprattutto la Germania, dove nasce Experimenta, lo stile di Brema di Kurt Hübnerssi, con Peter Zadek, Wilfred Minks e Peter Stein. Negli USA nasce un movimento pluriartistico, si mette in luce Christo che imballa i momumenti, Yves Klein con le Anthropometries e a Vienna Richard Schechner che mette in scena “Dionysius 69”, dove gli spettatori interagiscono con gli attori, in rappresentazioni in cui prevale l’absence de sens, il comico o grottesco, la commedia (Fritsch, Dürrenmatt, Hildesheimer), rappresentati nel cinema da “Il dottor Stanamore” di Stanley Kubrick. Esslin usa le stesse modalità per esprimere l’ansia metafisica dell’assurdità dell’esistenza umana.

Eppure il teatro continua a rimanere agganciato al dramma (Ionesco, Adamove), il testo resta preponderante anche con tutte le innovazioni.

Negli anni Ottanta e Novanta si assiste ad una sorta di confusione tra tradizione e postdramma. Il distinguo appare sottile per i non addetti ai lavori: la questione centrale non è più la corrispondenza tra teatro e testo (parola, significato, suono, gesto), ma trovare dei testi utili, adeguati, per un progetto teatrale che si basi su performance, impulsi, frammenti, per una nuova espressione indipendente dal testo.

Per comptendere il teatro postdrammatico occorre aver presenti le avanguardie storiche che lo hanno precorso, come l’antagonismo teatrale, il simbolismo (avanguardia ermetica), poi con futurismo, dada e surrealismo, e l’uso dei piccoli teatri, delle cantine. La scena simbolista era staticità antidrammatica, monologante. Stéphane Mallarmé ideò un Amleto con un solo attore, dove gli altri erano esclusivamente comparse. Paul Claudel ha sostenuto: “Il dramma è qualcosa che arriva, il teatro No qualcuno che arriva”. Maeterlinck e Mallarmé, poi Wilson, presero spunto dal teatro NO, quale rito, cerimonia, fato. In questo senso anche una sacra rappresentazione assumerebbe un aspetto scenico antidrammatico. Hanno preso questa linea anche Tadeusz Kantor con oggetti animati, Heiner Müller con i fantasmi, e Monique Borie.

Come dunque si differenzia il dramma dall’antidramma?
– al posto della trama e dell’azione, l’apparizione;
– al posto della rappresentazione, la performance.

Termina la fusione di testo e scena e si apre alla connessione con la poesia scenica, senza testo. Questa nuova poetica, a partire dal dramma lirico e simbolista, si connota come prima drammaturgia antiaristotelica (Bayerdörfer), già anticipata da Eschilo e da tutto il teatro che non si rifaceva alle prescrizioni aristoteliche (monodrammi, duodrammi e i melodrammi del diciottesimo secolo, ridotti a un’unica scena). E’ esemplare in proposito “La gardienne” di Henri de Régnier (1892). Il poema veniva letto da attori non visibili al pubblico, mentre sul palco, dietro un velo aveva luogo l’azione in forma di pantomima. Separazione tra azione e parola, ma era la rinuncia alla rappresentazione della realtà.

Le prime avanguardie del Novecento consapevolmente o meno usarono vari espedienti per superare il dramma, più che altro con la provocazione del pubblico, con il non sense, poi con la velocità, la musica, numeri di varietà e il cabaret. L’opera della Steine fu ripresa da molti gruppi d’avanguardia degli anni 60 e 70, per la sua forma pura…, ma lontana dalla realtà. L’espressionismo sebbene non sia avanguardia, ha degli elementi che la condizionano, come la predilezione per le forme di monologo e del coro… Analogamente ha inciso sul nuovo teatro il surrealismo con la sua provocazione e le sue immagini magiche. Ribadiamo dunque: il teatro postdrammatico è soprattutto rito, voce, scena, non necessariamente e strettamente azione.

Il concetto di segno teatrale deve comprendere tutte le dimensioni del significato, non soltanto i segni che portano informazioni determinabili, cioè significanti che denotano un significato identificabile o lo connotano come evidente, ma virtualmente tutti gli elementi del teatro. Una fisicità notevole, uno stile gestuale, un’organizzazione spaziale, senza significare, ma solo per il fatto di essere presentati con una certa forza, pur senza essere fissati concettualmente, vengono percepiti come manifestazioni o gesticolazioni che richiamano l’attenzione e hanno senso grazie all’effetto di aumento creato dal contesto della performance.

Il sogno è il modello per eccellenza dell’estetica teatrale, un’eredità del surrealismo. Artaud, che lo aveva previsto, parla di geroglifici per sottolineare lo status dei segni teatrali tra alfabeto e immagine, tra differenti affetti e significazioni. Anche Freud usa il paragone con i geroglifici per caratterizzare la tipologia dei segni che il sogno offre all’interpretazione. Si tratta di invenzioni, trovate poetico-letterarie, dunque disegni metaforici che rimandano a concetti o acrostici. D’altra parte per geroglifico non s’intende solo l’antica scrittura egizia, ma l’arte dei segni che si esprime in poesia, pittura e in pseudo enigmi… Una sorta di linguistica dei segni, la stessa enigmistica.

È stata stabilita una differenziazione tra i diversi livelli della rappresentazione teatrale: testo linguistico, testo della messinscena e performance text. Il tutto è indeterminato e potenziale rispetto al testo tradizionale, anzi funge da “dosaggio” dei differenti aspetti della performance. Si tratta di un modo di utilizzo dei segni a teatro, che rimescola da cima a fondo i livelli teatrali attraverso una qualità strutturalmente modificata del performance text: con più presenza che rappresentazione, più condivisione che comunicazione, più processo che risultato, più manifestazione che significato, più energia che informazione.

Lo stile o meglio la tavolozza stilistica postdrammatica, mette in rilievo i seguenti tratti caratteristici: sinestesia (accostamento di parole appartenenti a sfere sensoriali diverse) paratassi (periodo fondato prevalentemente su un criterio di coordinazione – che prevede la congiunzione), simultaneità, gioco con la densità segnica, musicalizzazione, drammaturgia visiva, fisicità, irruzione del reale, situazione/evento. La paratassi, indica una assenza di gerarchia nell’espressione e dei mezzi teatrali in generale; ogni mezzo, ogni aspetto del teatro ha la sua autonoma forza che insieme al resto crea azione congiunta che costituisce l’opera, senza gerarchie. Ovvero gli spazi, le luci, gli arredi, hanno la stessa peculiarità della parola, della dizione, del movimento scenico. La paratassi dà luogo alla simultaneità dei segni posti all’attenzione dello spettatore che non sempre li percepisce tutti. Ciò non deve apparire come una mancanza, ma come una libertà, un’alternativa al puro caos, perché apre al destinatario la possibilità di elaborare ciò che è simultaneo, operando una selezione e una propria strutturazione contro la “smania di comprensione” (Jochen Horisch). La sovrabbondanza di elementi scenici non è ancora vista come fatto positivo o negativo. Anche la musicalizzazione è vista come un nuovo elemento da definire, vi sono pareri discordi, chi la vede come struttura autonoma del teatro (Helene Varopoulou), un altro tipo di teatro, mentre Meredith Monk sostiene sia stato il teatro a portare alla musica. In realtà la musicalizzazione è oggi un elemento del teatro dalla pop alla sperimentale e accompagna spesso tutto lo spettacolo.

La scenografia come drammaturgia visiva, come la musica ha acquisito nel teatro postdrammatico, a tratti, un’importanza predominante, da riportare nell’ambito della paratassi. Nel nuovo teatro sono elementi difficili da accettare, per un pubblico abituato all’umanità (presenza preponderante umana) nella rappresentazione, le eccessive situazioni di caldo e freddo. La corporeità, la presenza del corpo che era nel teatro drammatico primaria, necessita nel teatro antidrammatico di una molteplicità di nuovi ruoli, anche più provocatori o drammatici, in forma di danza, ritmo, grazia, forza, cinetica, disabilità… rigidità, ostentazione, sudore. Si tratta di un teatro concreto che espone se stesso, senza preoccuparsi di creare contenuti o emozioni, ridicolo o noioso, visione fine a se stessa, di una percettibilità fittizia. E’ l’uscita dalla rappresentazione per irrompere nella realtà, comunemente con il coinvolgimento del pubblico presente, rivolgendogli la parola o provocandolo (sempre esistito nel teatro, ma accentuato). Nell’antidramma il ritorno alla realtà è fatto di trovate provocatorie che lasciano il dubbio allo spettatore se siano reali o parte dello spettacolo, della scrittura, come interrompere l’azione per bere un thé o spazzare il palco. Questo comporta che lo spettatore reagisca a quanto accade sul palco come se si trattasse della realtà. Ad esempio a scene di tortura reagirà disapprovando come se assistesse a una tortura reale, e così via.

Nel teatro postdrammatico negli anni 60 e 70 con vari gruppi teatrali cominciò a diffondersi quello che era stato l’happening (accadimento) sotto il profilo sociale e politico; a livello di teatro si trattava di inventare delle situazioni, delle provocazioni (fenomeno evoluto nell’uomo sandwich o in qualche tipo di flash mob). Questo genere di espressione è legato al situazionismo, movimento filosofico-sociologico ed artistico marxista libertario, con radici nelle avanguardie artistiche d’inizio Novecento, come il dada, il surrealismo e il costruttivismo russo, e nel pensiero politico del comunismo di sinistra, in particolar modo consiliarista e luxemburghista-spartachista, anarchico o ad alcune delle idee del pensiero di Max Stirner e Sartre: il loro interesse era costruire situazioni. Il situazionismo è stato creatore di fenomeni come l’autoriflessione, l’autoindagine, l’autocoscienza.

Il teatro antidrammatico si pone dunque come illusione del reale che ogni spettatore percepisce in modo diverso dall’altro, creandosi le sue emozioni e la sua percezione di teatro.

(Storia del teatro e dello spettacolo – 30.4.1997) MP

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SA REJNA DE SA ROSA

Lezioni condivise 102 – Origine dei gosos o gòcius

31 Lug 2015 @ 3:30 PM

Ho appena visto il film di Kenneth Branagh, Much ado about nothing (Molto rumore per nulla), dall’omonima commedia di William Shakespeare. Sarà per suggestione, per la bella opera letteraria e cinematografica, per la bravura di Emma Thompson, ma l’ho trovato davvero evocativo, dopo essermi immerso nell’argomento di questa lezione; ho respirato per qualche istante l’aria poetica del Duecento.

Sigh no more, ladies, sigh nor more;/ men were deceivers ever;/one foot in sea and one on shore,/ to one thing constant never;/ then sigh not so,/ but let them go,/ and be you blithe and bonny;/ converting all your sounds of woe/ into Hey nonny, nonny./
Sing no more ditties, sing no more,/ or dumps so dull and heavy;/ the fraud of men was ever so,/ since summer first was leafy./ Then sigh not so,/ but let them go,/ and be you blithe and bonny,/ converting all your sounds of woe/ into Hey, nonny, nonny./

Ho già trattato delle sacre rappresentazioni e della loro origine; in qualche modo anche i gosos (plurale che celebra le sette gioie di Maria) appartengono a questo rituale, con un percorso inverso: origine dotta, musicale, religiosa, che diventa in seguito rappresentazione popolare.

La tradizione dei gozos (z sonora castigliana), goich, goigs (catalano), in sardo gòcius, o a seconda delle zone, cògius, gosi, làudi, è radicata in Sardegna da secoli e la loro origine si accompagna ad altre forme d’arte sacre e profane, dall’origine latina (la parola deriva da gaudium, gioia) – il riferimento è agli Innari (composizioni metriche cantate), fin dai tempi di Ambrogio (IV sec. d.C.), liturgia e canti ambrosiani, e Agostino (IV-V sec. d.C.) – all’arte trobadorica.

I gosos sono dei canti devozionali paraliturgici dedicati ai santi e in particolare alla Madonna, sviluppatisi in Sardegna in seguito alla dominazione spagnola; il più antico documentato è attestato al XIV sec. Per molto tempo sono stati tramandati oralmente e oggi se ne conserva una minima parte pervenuta a noi in seguito a trascrizione. Gli autori sono prevalentemente chierici, parroci.

Nella metrica predominano le quartine, sestine, ottave o anche quintillas in ottonari.
La struttura più diffusa presenta una quartina iniziale i cui versi finali costituiscono il distico che funge da ritornello alla fine di ogni strofa:
sa cuartina de apertura si podet partire in duas perras de duos versos cada una: sos primos duos versos introduchen su tema de su cantu, sos àteros duos sun sa torrada. Sichin sas istrofas, mascamente sestas de otonàrios, in ube est cantau su tema.
S’ùrtima istrofa est una cuartina. Cada istrofa est serrada dae sa torrada chi est ripìtia duas bortas.
S’aspetu prus de importu de custa tipolozia de cantu est chi, mancari siat unu pagu monòtonu comente melodia, azudat sos fideles pro sa retentiva e s’esecussione de sa torrada. Pro su chi pertocat sa mètrica, s’ùrtimu versu de cada istrofa tenet sa matessi rima de su secundu de sa torrada e annùntziat a sos fideles cando est su mamentu de cantare (a.n.n.).

I “gòsos” oltre che componimenti poetici sono anche dei canti la cui struttura melodica si ripete in molti di essi. Armonia semplice proposta con rare varianti di strofa in strofa.

Sono però diversificate le modalità di esecuzione a seconda dell’area geografica: vi sono i “gòsos” cantati dalle quattro voci dei gruppi a cuncordu o dai gruppi di canto a tenore con le rispettive caratteristiche; da una assemblea di partecipanti a un rito, una processione, con le suggestioni del caso; forme monodiche o come canto solista con accompagnamento strumentale affidato all’organo, la fisarmonica, armonium, launeddas, organetto o, in Campidano, alla chitarra.

Non molto dissimile è anche la tradizione dei rosari cantati. Si tratta dell’esecuzione, basata su versioni in lingua sarda, dei più diffusi testi di preghiere. Di norma è prevista l’alternanza di due cori, ognuno dei quali canta a più voci all’unisono la metà di ciascuna preghiera. Ciò accade nella maggior parte dei centri dell’isola, specie in occasione delle processioni per le feste patronali. E’ una forma di espressione popolare mai artisticizzata, forse per l’eccessiva semplicità e monotonia, tuttavia è la testimonianza di una forte espressione identitaria, che ha una sua casistica riguardo alle occasioni, le modalità di esecuzione, le melodie differenti da paese a paese, i tratti fonetici.

AVE MARIA
Deus Ti salvet, Maria,/ prena de gratzia;/ su Sennori est cun tegus:/ benadita ses Tue trà totu is fèminas,/ e benaditu est su frutu/ de sas intrànnias tuas, Gesus./
Santa Maria, Mama de Deus,/ pregai pro nos àterus pecadores,/ immoi et in s’ora de sa morti nostra./ Amen Gesus./

Ma i gosos sardi hanno un’origine alternativa, parallela, più antica, relativa a modelli bizantini (con ritornello alla fine), identici ai kontakia greci. Nel De caerimoniis aulae Byzantinae risulta che il protospatario Torchitorio I avesse inviato una rappresentanza di sardi a Costantinopoli, i quali, in onore all’imperatore Costantino VII porfirogenito, avevano cantato un inno in greco.

Pertanto è come se una tradizione già esistente nell’innologia sarda si fosse mescolata a pari tradizione spagnola, assumendone in molti casi la lingua. Nel Seicento esplose il fenomeno della drammatica religiosa ed i gosos vi trovarono parte.

Anche questa forma d’arte poetico-musicale trovò tuttavia degli ostacoli nel periodo dell’inquisizione. Nel 1649 Filippo IV proibì il teatro, ma la tradizione continuò e nel Settecento si divulgarono delle raccolte manoscritte in sardo; nel secolo successivo i manoscritti erano ampiamente diffusi, anche in spagnolo.

Intorno al 1763, l’arcivescovo di Sassari Viancini proibì i gosos per rendere più severo lo stile della liturgia. Nel 1924 il Concilio plenario dei vescovi sardi, nel clima di assimilazione “culturale” fascista che arrivò perfino a vietare l’uso del sardo e delle lingue straniere, vietò questo tipo di canti,

Il testo più antico tra quelli oggi conosciuti è la raccolta delle Laudes a sa Rejna de sa Rosa. Questo il testo che dà il titolo alla silloge antologica:

LÀUDE DE NOSTRA SIGNORA DE SA ROSA
O ànima dolorosa/ ch’istas priva de cuntentu,/ semper apas, in pensamentu/ sa Rejna de sa Rosa./
1  Si de pecados dolente/ tue has fatu unu sumàriu,/ nara a Maria allegramente/ su Santìssimu Rosàriu,/ si su mundu est aversàriu/ non podet nessuna cosa/ pro chi lì paret contràriu/ sa Rejna de sa Rosa.
2  Si cheres àteru connoscher/ de pressiosa e allegria,/ nàra chimbe Pater Noster/ e chimbanta Ave Maria,/ pònedi in sa Cunfraria/ servèndela in dogni cosa,/ ti det fagher cumpangia/ sa Rejna de sa Rosa.
3  Servemus sa Virgo pura,/ Virgo santa immaculada/ pius de dogni creatura,/ defensora e avocada/ nostra est Maria sagrada/ de Cristos Mama e Isposa,/ ch’in sempiternu est giamada/ sa Rejna de sa Rosa./
4   Ai custa saludait/ s’ànghelu cun grande onore,/ custa virgo invitait/ a sa sedia gloriosa/ lassande in terra pro ghia/ sa Rejna de sa Rosa./
5   Sa virgo fuit in piantu/ pro esser in terra lassàda,/ ma de su Ispíritu Santu/ issa istesit consolada,/ sa morte sua adnotada/ istesit miraculosa,/ pro esser a su ghelu alzada/ sa Rejna de sa Rosa.
6  Su fìgiu la incoronait/ de perelas cristallinas/ e posca l’intitulait/ subra dogni feminina, de ghelu e terra Rejna/ pedra fina e preciosa,/ siat de nois meighina/ sa Rejna de sa Rosa./
7  O Virgo sola complida/ piena de benignidade,/ cun tantu amore insignida/ e perfeta castidade,/ in dognuna infirmidade/ de sa vida traballosa/ semper pro nois pregade/ Virgo santa de sa Rosa./
(sec. XIV)

Ho fatto cenno alla parentela con l’arte trobadorica. In merito si possono fare alcune ipotesi che, considerati diversi periodi storici, potrebbero anche coesistere: dall’antica origine comune, alla suddivisione in brani religiosi e profani, rifusisi parzialmente nel periodo trobadorico provenzale, nel senso che i trovatori per vivere accettavano commesse da parte delle corti, cioè componevano per i sovrani a tema, anche mirato e non disdegnavano la canzone religiosa.

L’attività in favore dei mecenati veniva definita sirventese (scritta come servente) e la tipologia era varia, sia sotto il profilo tematico (amore, politica, religione), sia sotto il profilo metrico e artistico.

I trovatori vennero a contatto anche con le corti sarde. Essi svolgevano mediante i giullari (attori, divulgatori, che riproponevano i loro lavori), una sorta di servizio di informazione; le notizie si trasferivano di corte in corte, ma anche tra il popolo, mediante i sirventes.

È famoso l’esempio di En amor trob tantz de mal seignoratges di Albertet de Sisteron (1221), nel quale la giudicessa Adelasia di Torres, moglie di Ubaldo Visconti e poi di Enzo di Hoensthaufen (figlio di Federico II di Svevia), viene citata tra le donne più celebri e belle.

L’arte trobadorica (scrittura e ricerca) ebbe la sua influenza anche nella poesia popolare sarda, di quantità, forme e generi di estrema eterogeneità. Un documento importante in questo senso è Memoria de las cosas que han acontecido en algunas partes del Reyno de Cerdeña, di fine Quattrocento.

(Storia del teatro e dello spettacolo – 23.4.1997) MP

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SA REJNA DE SA ROSA
1 #
Davide
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Inviato il 05/02/2016 alle 19:18
Bravo

STORIA DELL’OCCHIO…

Lezioni condivise 95 – La doppiezza pirandelliana

31 Dic 2014 @ 6:23 PM

Ogni espressione culturale e artistica ha origine dalla necessità dell’uomo di rappresentare se stesso sotto un’ampia serie di forme, scrittura, pittura, musica, con l’uso del corpo, della mente e soprattutto dei sensi, è un creare e ricevere.

Alla base del teatro c’è la vista, quindi l’occhio, è un’arte da guardare, per conoscere, meravigliarsi – dal greco thèatron, thèa e dal latino spectàre, specère (spettacolo).
E’ l’occhio che ci fa provare le sensazioni, ci permette di conoscere il mondo, ci fa meravigliare continuamente di noi (gnothi seautón = conosci te stesso), in un ciclo di visione e rappresentazione.
L’occhio è il varco che entra e porta dentro di noi, il faro della nostra fronte, ciò attraverso cui è passato, passa e passerà tutto ciò che conosciamo e conosceremo. Chi ci guarda negli occhi entra dentro di noi e da questo atto nascono sensazioni e sentimenti. L’occhio non si punta per molto tempo sull’occhio, vaga; non guardare negli occhi è negare la conoscenza agli altri e a se stessi.
L’animale quando si trova in pericolo e non ha via di scampo, guarda negli occhi, è un modo istintivo per dominare l’altro, per entrare nel suo mondo conoscerlo, comunicare.
L’uomo fa lo stesso in maniera consapevole, provando, a seconda dei casi, piacere, rabbia o altre emozioni.
E’ il teatro della vita, perché la vita è teatro, in quanto noi vediamo; guardare è l’attività principale, fondamentale, dell’uomo, sia come codice ludico, che come codice  mimetico o altro.
Il teatro è il nostro modo di comunicare con gli altri, per quello che siamo. Più noi tentiamo di comunicare agli altri, più noi riusciamo a conoscere noi stessi.
Questa teoria dell’occhio viene stravolta in una società schizofrenica, pregna di condizionamenti e di diffidenze, ove si vuole o si è costretti ad apparire diversamente da come si è, anche se gli altri non ci vedono per come cerchiamo di mostrarci. Il teatro si evolve!
Questo esperimento di vite parallele, tra privato, commedia, dramma e politica, fu pienamente esercitato da Luigi Pirandello. Egli di sicuro si inventa un altro se stesso nelle sue commedie, ma se ciò si potesse dire anche delle sue scelte politiche, sarebbe tutto a suo vantaggio.
Nel caso di Ungaretti credo di essere stato abbastanza chiaro, non vedo perché non dovrei esserlo per Pirandello. Due casi diversi. Ungaretti non ha alcuna attenuante e anzi diverse aggravanti, in più ha vissuto abbastanza per potersi ricredere e non lo ha fatto. Con questo non voglio dire che Pirandello abbia delle attenuanti, aderì volontariamente al fascismo in età matura e all’indomani del delitto Matteotti, adducendo peraltro motivazioni aberranti, pertanto condivido il senso del giudizio che espresse Giovanni Amendola e di tutti quelli che hanno avuto lo stesso coraggio, non certo di chi ancora oggi a “sinistra” tenta di negare la realtà, nascondendo, negando, giustificando.
Strappò una tessera del PNF, questa fu una buona azione, ma continuò ad essere fascista e ad avvantaggiarsi dei “premi” di Mussolini, quando il suo stesso dramma familiare lo avrebbe dovuto allontanare. Morì il 10 dicembre 1936, prima che il fascismo mostrasse il suo lato peggiore; non sappiamo pertanto se ne avrebbe preso le distanze o meno. Ma anche questa non è un’attenuante rispetto alle scelte già fatte.
Nonostante Pirandello sia stato un personaggio e un commediografo tale da ispirare considerazioni diverse (alludo appunto al suo alter ego letterario), una persona è un tutt’uno e tutto quello che è stato contribuisce al giudizio finale.
Nato il 28 giugno 1867 in contrada Caos presso Girgenti (dal 1929 Agrigento), all’età di 25 anni si stabilì a Roma, ove lo raggiunse la proposta del padre di fidanzarsi con Antonietta Portulano, figlia del suo socio d’affari. Si sposarono nel 1894, lei aveva quattro anni meno di lui. Anche se non ebbero alcuna intimità fino alle nozze, l’unione riuscì anche sotto il profilo passionale, ma per motivi accidentali fu breve. Nel 1903 in Antonietta comincia a manifestarsi la malattia mentale, che ha come pretesto, prima la gelosia morbosa nei confronti del marito (la pazzia di mia moglie sono io), poi il fallimento della società di famiglia (la zolfara di Aragona), l’impoverimento, la morte del padre e l’internamento, concluso con la morte nel 1959.
Le testimonianze concordano su un Pirandello fedele, che visse anni di tormento; secondo Corrado Alvaro, suo amico, la tragedia familiare determinava tutte le sue azioni (non so se sia uno degli alibi). Ebbero tre figli Stefano, Lietta e Fausto.
Pirandello ebbe un singolare rapporto con il figlio Stefano (1895-1972), il maggiore, nato un anno dopo il matrimonio. Questi cambiò cognome in Landi, perché il nome del padre lo oscurava. Ha scritto un solo romanzo e diversi lavori teatrali, in un’ottica opposta a quella del padre, lui sana ove il padre affonda la lama e tuttavia il padre credeva nella sua arte e lo faceva partecipe della sua, tanto che sarà lui a concludere I Giganti della Montagna.
Tentiamo di valutare in che modo Pirandello si sdoppia nella sua opera, specie nei miti, ove è confermata la positività dei suoi personaggi femminili. Forse una sorta di ricompensa per il dramma della moglie, per lei e per se stesso, una sorta di indennizzo psicologico.
Ne Il mito di Lazzaro (1926), ambientato in epoca contemporanea, al sud, dove le donne sono considerate ancora subalterne, emerge la figura di Sara, personaggio di grande dignità, secondo la visione della donna da parte di Gesù.
Diego e Sara, marito e moglie, giungono a separarsi per i continui contrasti. Lei si rifà una vita dopo i vani tentativi di riconciliazione, se ne va in campagna dove stabilisce una libera relazione, non condizionata da regole e religione. Diego si occupa dei figli, relega Lucio in seminario e Lia in convento; ma Lucio si rifiuta di diventare prete e il padre muore nella conseguente violenta reazione; sarà risuscitato dal medico, come Lazzaro. Ha scoperto però che nell’aldilà non c’è nulla e le sue rinunce sono state inutili, perde la fede e cerca la vendetta.
Lucio per poter mediare tra padre e madre si dedica alla vita religiosa e sostiene che Dio non va interpretato secondo logiche razionali, ma più profonde. Dice al padre: Eri morto e sei risuscitato senza vedere al di là, è il tuo castigo. Devi vivere e lasciar vivere. Questo è bene, è Dio: valorizzare ciò che c’è in questa vita. Con la stessa logica esorta la sorellina Lia, paralitica, a rialzarsi e lei lo fa.
Diego/Lazzaro, solo metaforicamente legato al personaggio del Vangelo, è la riproposizione del dramma della resurrezione/rinascita fisica e interiore dell’uomo.
Lazzaro (da Maschere nude) fu stroncato da “Civiltà cattolica”, che non vi lesse la speranza che nasce dalla capacità dell’uomo di rispondere alle proprie domande, ma ateismo, dunque incapacità a superare i limiti della conoscenza.
Ne I giganti della montagna (iniziato nel 1928), un mito tra favola e realtà, il mago Cotrone, abbandonata la civiltà si occupa dei sei abitanti dell’isola La Scalogna, ai margini della vita, per difenderli dallo sfruttamento padronale, dispensando verità, le verità che la coscienza rifiuta. Ma nell’isola arriva la compagnia della contessa Ilse. Lei, ospitata dal mago, vuole portare in scena La favola del figlio cambiato, ma non c’è teatro nei dintorni.
Cotrone propone di rappresentare la favola nel paese dei Giganti che abitano nella vicina montagna, in occasione di una grande festa di nozze, pur sapendo che essi sono adusi all’uso della forza e un po’ bestiali.
Fin qui Pirandello; il dramma è concluso dal figlio Stefano: i giganti inferociti dallo spettacolo che non comprendono, aggrediscono gli attori e Ilse viene smembrata come un fantoccio. Ilse rappresenta la cultura, torturata dall’ignoranza, “la tragedia della Poesia in questo brutale mondo moderno”, scrisse Pirandello a Marta Abba.
Poteva essere l’inizio di un ripensamento? Eppure questi giganti sono l’immagine dei nazifascisti, che anche lui (pur non gradendo la definizione) nel suo concreto pirandellismo, apprezzava come nemici della cultura e dell’arte, arricus de tontìmini, alla stregua dei macellai di Charlie Hebdo. *

(Storia del teatro e dello spettacolo  – 11.4.1997) MP

* postilla del 9.01.2015

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STORIA DELL’OCCHIO…
1 #
Giulia
http.chidicedonna.myblog.it
giuliapenzo@alice.it
5.90.10.161
Inviato il 11/02/2015 alle 21:28
Stai guardando Sanremo ?

NURAGH… LÌTHOS QUE DESECHARON ARCHITECTOS EST DEVENUE CANTONADA STONE

Lezioni condivise 84 – Il teatro della pietra

31 Dic 2013 @ 11:55 PM

Credete in qualcosa? Almeno in lupus in fabula dovete credere!

Metto subito le carte in tavola: devo trattare di teatro, di teatro della pietra, e ciò basterebbe ai più accorti per pensare a uno scultore sardo geniale, apprezzato a livello internazionale. Il suo nome ha cominciato a risuonarmi intorno quando, ancora adolescente, attraversai per la prima volta San Sperate e potei vedere i famosi murales di cui avevo sentito tanto parlare e dei quali egli fu il principale artefice. Nel 1968, di ritorno da alcune esperienze all’estero, proponeva al paese natale la sua rivoluzione culturale. Per cominciare lanciò l´iniziativa di imbiancare tutti i muri delle case di fango (làdiri) e su quei muri furono poi dipinti i primi murales.

Da allora Pinuccio Sciola è un celebrato artista alternativo, per non dire underground. Lo incrociai nuovamente con il mio avvicinamento concreto al movimento per il bilinguismo in Sardegna e in quello stesso periodo lo incontrai per la prima volta in occasione di uno dei tanti momenti celebrativi in onore di Antonio Gramsci, quando tenne contemporaneamente una mostra e un laboratorio attivo in piazza.

Potrei continuare a raschiare il barile dei ricordi e degli echi… Il 7 marzo di qualche lustro fa, un venerdì, alle nove da poco passate, entrato nella gloriosa aula 3 della Facoltà di lettere (la mia facoltà ha tante aule gloriose) per assistere alla lezione di Storia del teatro e dello spettacolo con prof. Bullegas, trovai un ospite, appunto Sciola.

Ho speso qualche ora a cercare l’introvabile per ampliare appunti scarni, ma ieri mattina – sarà il potere delle stelle, che aleggia sempre quando si tratta di pietre, o quello che volete – l’artista si è palesato, e ho avuto a disposizione la fonte diretta delle mie ricerche per chiarire alcuni punti insoluti. Ecco l’avvenirismo 2.0, altro che google! Un po’ come fare una ricerca sulla Rivoluzione francese e ritrovarsi accanto Danton, Marat, Robespierre e Sanjust insieme. Piccole cose, ma entusiasmanti.

Scultore e pittore autodidatta in gioventù, nel 1959, grazie a una borsa di studio, poté accedere al Liceo Artistico di Cagliari. Completò gli studi presso la facoltà di Magistero a Firenze e l’Università della Moncloa in Spagna; seguì un corso di scultura all’Accademia internazionale di Salisburgo. Ebbe presto una cattedra al Liceo Artistico di Cagliari fino al 1986. Nello stesso periodo promosse la Scuola Internazionale di Scultura a San Sperate. Nel 1973 lavorò a Città del Messico con Siqueiros. Dal 1990 al 1996 ha insegnato Scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Sassari.

La sua carriera è poi costellata di importanti presenze a mostre internazionali, tra cui Venezia, Monaco, Messico, Spagna, Cuba.

L’incontro di quel 7 marzo ebbe inizio con una curiosità che capitò allo scultore all’apice della sua fama, una sorta di incontro con la burocrazia italiota, figlia di una certa retroguardia stantia e nostalgica. Nel concorso per accedere all’insegnamento presso l’Accademia delle belle arti, per Scultura, gli fu attribuito il punteggio zero e ciò gli valse una lettera di solidarietà dell’allora presidente della regione Sardegna, Federico Palomba, che in quell’occasione ci venne letta.

Ma la vera lezione fu sulla pietra. Pietra da tempo moderatamente celebrata da poeti, letterati, profeti, maestri di muro, ma chi può trarne la sintesi tra filosofia e empirismo, tra idea e materia, è certamente lo scultore e Sciola è andato ben oltre, ha dato voce alle pietre.

La pietra è il segno per eccellenza della terra, un elemento fondamentale della vita da sempre. Scolpire è interagire con la natura e la scultura è il teatro della pietra, in un certo senso è restituire dignità al creato, un gesto sacrale per la rigenerazione planetaria. Mostrare la terra, a volte invisibile, a volte disconosciuta, è la funzione dell’artista.

Le pietre sono città sonore, opere d’arte che non si vedono, semi di pace nascosti dall’aratro. La natura è protagonista di questo teatro, per cui ha davvero senso applaudire un albero e premiare il vento.

Sciola a San Sperate ha un giardino dove le sue opere di pietra sono esposte come tanti menhir per rinnovare la profonda cultura megalitica sarda, dalle tombe dei giganti – i tanti Gemitòriu che di quelle hanno la disposizione e conformazione – ai nuraghes. Queste pietre di basalto, scolpite, laminate, suonano nei modi più vari al tocco leggero di una scaglia litica, il suono viene da dentro ed è velato di mistero.

Le pietre sonore sono sculture simili a grandi menhir che risuonano a trisiadura. Le loro proprietà sonore sono ottenute applicando delle incisioni parallele sulla roccia. Sono capaci di generare suoni articolati, con differenti qualità a seconda della densità della pietra e dell’incisione, suoni che ricordano il vetro o il metallo, strumenti di legno e perfino la voce umana.

Esse, dall’inizio degli anni novanta, sono state esposte in tutto il mondo, sono stati organizzati concerti in cui queste sculture sono diventate veri e propri strumenti musicali e fonte di ispirazione per artisti, musicisti e compositori.

Nel 1991 Sciola visitò l’Isola di Rapa Nui (Pasqua), ombelico del mondo, territorio cileno del profondo Pacifico. Ospite in casa di un nativo, osservò, fotografò e rilevò, un manufatto simile a un nuraghe. Quando proiettò le diapositive senza dire dove fossero state realizzate, non ci furono dubbi che si trattasse di nuraghes.

La fantasia cominciò a navigare, bloccata subito dalla ragione. Prima delle grandi scoperte geografiche tra la Sardegna e quell’isola sperduta del Pacifico non ci fu di sicuro alcun rapporto. Un dilemma irrisolvibile, a meno di invocare nuovamente le stelle e i misteri irrisolti delle grandi opere megalitiche del passato, da Stonehenge alle Piramidi, dai Menhir ai Nuraghes.

La scoperta di Sciola non ebbe il risalto che pareva meritare. Ne parlarono i quotidiani isolani, ma non ci fu il clamore che avrei immaginato e che forse avrebbe avuto se nell’isola di Pasqua fosse stata ritrovata una Piramide o un dolmen simil Stonehenge. Cosa non ingrana quando c’è di mezzo la Sardegna?

I Nuraghes – II millennio a.C., età del bronzo, ne restano circa 7.000 – non sono meno misteriosi delle altre opere megalitiche, forse di più, se non altro perché meno studiati, eppure non attraggono quanto quelle, né a livello turistico, né scientifico, quasi si dicesse alla Sardegna, come si permette… per non parlare di chi proponeva di spostare i nuraghes che disturbavano potenziali e illusori progetti megaedilizi e commerciali, o voleva integrarli in essi, tanto erano i frigoriferi dell’età del bronzo (sic!) – datazione nostra, chi ha espresso un concetto così altamente culturale ne è certamente ignaro.

I nuraghes di Rapa Nui restano dunque testimonianza nelle schede dei ricercatori dell’Università di Cagliari, nella memoria di prof. Lilliu e di altri studiosi, interpellati in merito da Sciola, ignorati anche da chi continua a elaborare teorie su Atlantide e su una globalizzazione preistorica realizzata dai Shardana, magari con aiuti cosmici.

Certo questa scoperta sull’isola di Pasqua è curiosa e fa il paio con il ritrovamento dei kolossoi nel Sinis contro gli oltre trecento Moai (anche se questi datano 1000 d.C) disseminati nell’isola del Pacifico, grande poco più di un terzo la Sardegna e con soli 4.500 abitanti, senza piante e animali, ma con un turismo smisurato. Per il momento noi attraiamo solo la speculazione edilizia costiera.

Avrei potuto sintetizzare il mio scritto con questi versi del maestro:
Ho vissuto ere geologiche interminabili./ Immani cataclismi hanno scosso/ la mia memoria litica./
Porto con emozione i primi segni/ della civiltà dell´uomo./ Il mio tempo non ha tempo. (Pinuccio Sciola)

(Storia del teatro e dello spettacolo – 7.3.1997) MP

Commenti (5)

Nuragh… Lìthos que desecharon architectos est devenue cantonada stone
5 #
Lila Ria
infondoagliocchi.blogspot.com
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82.54.129.83
Inviato il 12/01/2014 alle 14:59
credo che qui io sia ben accetta 🙂

Nuragh… Lìthos que desecharon architectos est devenue cantonada stone
4 #
vitty
vitty.blog.tiscali.it
vitty.n@tiscali.it
84.223.34.103
Inviato il 11/01/2014 alle 09:01
Ciao Indian, non so cosa stia succedendo a Tiscali,ma sono due sere che provo a entrare nel blog senza riuscirci. Durante il giorno mi è difficile causa mancanza di tempo. Riproverò questa sera! Volevo dirtelo perchè il tuo post è molto bello e mi ha veramente “conquistata!” A stasera dunque…tiscali permettendo! 😦

Nuragh… Lìthos que desecharon architectos est devenue cantonada stone
3 #
vitty
vitty.blog.tiscali.it
vitty.n@tiscali.it
84.223.33.137
Inviato il 02/01/2014 alle 21:44
Complimenti,hai saputo trasmettermi il tuo entusiasmo e la tua sorpresa ! Ora non vedo l’ora di leggere il seguito!
Auguri per un nuovo anno bellissimo (meglio esagerare… si fa come nel commercio… si chiede di più per avere il meno 🙂 ) incrociamo le dita e andiamo avanti.

Nuragh… Lìthos que desecharon architectos est devenue cantonada stone
2 #
Frittata
ilcestinodeicotoni.iobloggo.com
annamariaporcelli@libero.it
79.55.72.64
Inviato il 01/01/2014 alle 22:29
Grazie per le visite al mio blog.
Buonissimo anno, carico di tanto bene.

Nuragh… Lìthos que desecharon architectos est devenue cantonada stone
1 #
indian
m@tiscali.it
2.39.239.21
Inviato il 20/12/2013 alle 00:11
@sally brown
Ciao Sally, ci siamo incontrati qui 8 anni fa condividendo la condanna del governo israeliano per il genocidio del popolo palestinese, ma non posso non prendere le distanze dalla tua ultima battuta: Badoglio era un fascista come gli altri, un tdc; tanti politici attuali sono fascisti di fatto e tdc, ma un repubblichino, oltre ad essere nazifascista, è molto peggio di un tdc.

VERDADERA HISTORIA DE LA INVENCION DE LOS CUERPOS SANTOS…

Lezioni condivise 74 – Alle origini della drammatizzazione

28 Feb 2013 @ 11:50 PM

Una buona motivazione per cercare di inquadrare, oggi, le origini del teatro, è che la vita stessa, sociale o privata, si manifesta sempre di più come una clamorosa farsa, al punto che si è persa una buona dose del senso del ridicolo e a certi livelli si fa una grande confusione. Abbiamo appena assistito a una campagna elettorale nella quale sono scesi in campo guitti anche di infimo ordine, che tuttavia hanno catturato la seria attenzione di importanti percentuali di popolazione ormai priva di spirito.

Il resto del mondo, forse più serioso, ma che ha anche smesso di credere prima di noi alla Befana, ci guarda attonito vedendo, ad esempio, che siamo riusciti a trascinarci fino al 2013 la storia che “i comunisti mangiano i bambini”, cosa che ha sempre fatto ridere tutti, ma che Berlusconov, grande amico di Wolandevič, è riuscito in questa neo bassa età di mezzo a far credere vera e a far studiare a memoria in qualche scuola privata brianzola.

Se è vero dunque che il teatro è stato fin dalle origini rappresentazione della vita, è meno ragionevole che la vita si trasformi in teatro tout court.

Per tagliare la testa al toro sulla data di nascita del teatro potremmo dire che esso sia nato con l’uomo, che affondi le sue radici nel passato remoto, alle origini della storia. Un semplice atteggiamento può rappresentare un comportamento teatrale, un istinto religioso o successivamente un culto, con i suoi riti e le sue scenografie, che costituiranno in seguito gli elementi basilari della drammaturgia delle origini, ma che l’antropologia culturale e più specificamente teatrale, continua a individuare ancora oggi.

All’origine, al di là di azioni individuali e spontanee, vi sono i riti propiziatori di ogni genere, più di tutti quelli legati al ciclo delle stagioni, dunque all’attività agricola e ai fenomeni atmosferici; in società appena più evolute subentrano anche i riti sociali legati al ciclo della vita, agli avvenimenti, i riti iniziatici. Una lenta evoluzione introduce la mimica, la danza, la musica, il trucco, il costume, le maschere. Elemento fondamentale in questa fase primitiva è la partecipazione del pubblico, ovvero il pubblico è anche attore. Circostanza recuperata dal teatro contemporaneo sperimentale e d’avanguardia, ivi comprese tante compagnie attente alla ricostruzione del passato.

Il primo salto di qualità vero avvenne nella Grecia del V secolo a.C., ove cominciò a distinguersi tra la tragedia (emanazione dei culti dionisiaci) di natura appunto tragica, drammatica, e la commedia (non sacra) con contenuti comici, spesso a lieto fine.

Un’evoluzione decisiva per il teatro è rappresentata dalla Poetica di Aristotele (III sec. a.C.), dove l’arte viene analizzata in tutti i suoi aspetti, compreso il teatro. Il testo diventa una sorta di vangelo dell’arte e terrà banco fino alla nascita del teatro moderno.

In Grecia con il teatro nasce anche l’edificio ove esso viene rappresentato, che prende la forma delle sistemazioni primitive: il pubblico in circolo su un pendio e gli attori ai piedi dello stesso, in piano; in seguito su queste colline sorgeranno le gradinate, fino alla costruzione degli anfiteatri. Dalle rappresentazioni sacre con il coro narrante, piuttosto statiche, si arriva ai dialoghi con la tragedia, mentre in seguito con la diffusione del teatro popolare (nei mercati, nelle feste), nascerà la commedia.

Durante l’impero romano il teatro veniva rappresentato in edifici di legno, gli attori usavano delle maschere, efficaci anche per l’acustica. L’uso che se ne faceva era spesso politico.

Con il crollo politico di Roma scomparve il teatro classico, che riuscirà a riemergere grazie al mantenimento delle sacre rappresentazioni, questa volta cristiane, che la chiesa usava anche a fini liturgici e didattici per il popolo.

Nel basso medioevo, si ripartirà dalle comunità che celebrano se stesse, dalla loro vita, dall’amore come necessità di scambio, dalla festa come necessità di socializzare, comunicare, manifestare, mostrarsi, offrire. Il teatro è dunque lo specchio della vita, è un bisogno primitivo di rappresentarsi senza necessità di codifiche o normative, che verranno molto dopo con la professionalizzazione del mestiere dell’attore.

Fatti salvi i testi teatrali degli autori classici (i greci Eschilo, Sofocle ed Euripide, il romano Seneca, tragediografi; i greci Aristofane, Menandro e i romani Livio Andronico, Plauto e Terenzio, commediografi), la scrittura di testi di teatro tornerà con semplici canovacci (annotazione delle improvvisazioni degli attori in scena), tra trecento e cinquecento, quando nasce il genio di Shakespeare e la commedia dell’arte e compaiono anche i primi anfiteatri al chiuso e autori come Goldoni, Ariosto, Machiavelli…

In Sardegna, grazie all’opera di Serafino Esquirro, autore de Santuario de Caller, y verdadera Historia de la invencion de los cuerpos Santos hallados en la dicha Ciudad y su Arobispado, compuesta por el R. F. Seraffin Esquirro Teologo y Predicador de la Orden de Padres Capuchinos de san Francisco de la Provincia de Serdeña y natural de Caller, 1624, abbiamo il documento di una eccezionale sacra rappresentazione, particolarmente movimentata. Il testo originale è riportato ne “L’effimero meraviglioso” di Sergio Bullegas, Cagliari 1995.

Quella raccontata da Esquirro, in piena Sardegna “spagnola”, è la processione drammatica, coreografica, fastosa e festosa delle reliquie di santi martiri rinvenute in Cagliari nel 1614 nell’antica basilica di S. Saturnino, e della traslazione di esse nel santuario fatto costruire appositamente.

Nel testo viene raccontata minuziosamente la storia della Basilica e del ritrovamento di reliquie e santi, che, secondo molti cronisti, in gran parte furono inventati di sana pianta dall’Esquirro.

Il racconto della festa è comunque di notevole importanza storico-culturale in senso ampio.

Il 26 novembre del 1618, vigilia della traslazione, si tenne dunque questa manifestazione in testa alla quale stavano gli aristocratici, dotti o meno, i preti, frati, ma anche tutto il popolo, campane a festa in tutte le chiese cittadine, concerti in Cattedrale e di sera l’encamisada (fiaccolata) per le vie di Cagliari, guidata da cavalieri e suonatori, tra i bagliori dei fuochi d’artificio.

Questo fu solo il prologo, perché il giorno successivo i festeggiamenti iniziarono fin dal mattino con la partecipazione di corporazioni e confraternite, le autorità civili, la nobiltà e i religiosi di tutta l’isola. La processione partì festosa dalla chiesa di San Lucifero colorata dai più disparati stendardi, di cui Esquirro descrive anche l’ordine occupato nella processione. Nel bel mezzo i simulacri dei santi, di cui viene riportato il nome preciso e accanto a loro come per tenergli compagnia le statue di tanti altri… “Per ultimi venivano il corpo di San Giuliano martire e conte cagliaritano… trasportati dalla Confraternita del Monte di Pietà.”, riporta l’Esquirro (in spagnolo), “Sulla portantina su cui era il corpo di San Giuliano c’erano cinque monti, che costituiscono l’insegna di questa Confraternita, ornati meravigliosamente di moltissimi e svariati fiori di seta e d’oro. Sulla sommità del monte centrale si trovava un albero di palma, con una corona su ciascun ramo… Alcuni raggi dorati partivano dagli angoli dell’urna su cui poggiava un grande e prezioso astore tempestato di diamanti, perle e altre pietre preziose finissime, il cui valore era di tremila ducati. L’astore aveva nel becco una palma e una corona nel mezzo, in una zampa sosteneva una scritta di lettere argentate in campo incarnato che diceva:
Con le vittorie della terra
ho guadagnato quella eterna del Cielo.
Tale astore alludeva… alla vittoria che conseguì questo santo con il Martirio, essendo l’astore simbolo di vittoria…

La descrizione continua con l’itinerario percorso fino alla Cattedrale e perfino con la descrizione del tempo atmosferico, miracolosamente generoso, pioveva solo di notte!

La festa proseguì ancora per quattro giorni, il I dicembre si svolse un torneo tradizionale e complesso descritto con estrema meticolosità.

Per completezza è necessario segnalare altri due testi di contemporanei dell’Esquirro sullo stesso argomento, uno di Giovanni Francesco Carmona,   Alabanças de los Santos de Sardeña, l’altro, sebbene lacunoso, di Antonio Sortes, Relacion del 1648.

Predicatori senza grande cultura, ma capaci di comunicarla.

(Storia del teatro e dello spettacolo – 19.2.1997) MP

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Verdadera historia de la invencion de los cuerpos santos…
4 #
diamanta
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diamanta00@gmail.com
95.230.91.103
Inviato il 18/03/2013 alle 11:11
(un passaggio veloce e fuori tema per dirti che son stata anche io contenta di “vederti” da me)

Verdadera historia de la invencion de los cuerpos santos…
3 #
sally brown
innellama@tiscali.it
151.54.243.244
Inviato il 08/03/2013 alle 19:15
la parola “rappresentazione” mi ha sempre affascinata: la rappresentazione della giustizia, la rappresentazione della realtà, la rappresentazione del dolore, la rappresentazione della storia…c’è di mezzo una sorta di mediazione necessitata, c’è di mezzo un limite insormontabile, un non poter andare direttamente al punto senza restarci secchi: anche la politica, se ci pensi, è piena di giri contorti, necessita di un palcoscenico a separare i piani, e i politici parlano degli italiani come se fossero altro da loro e dalle loro bocche escono sempre parole che sembrano di un altro mondo…./.)
(ps: grazie per avermi ricordato che sto trascurando il blog!)

Verdadera historia de la invencion de los cuerpos santos…
2 #
emma
chidicedonna.myblog.it
g@alice.it
87.8.244.253
Inviato il 03/03/2013 alle 23:35
Una mia collega di lavoro che ora si trova in sardegna mi narra delle processioni religiose che lì nella vostra terra sembrano essere particolarmente sentite (come in sicilia).
Dici che la rappresentazioni teatrali e quelle religiose hanno la stessa origine. Bé, sì. Tieni presente che la tragedia greca aveva anch’essa una funzione catartica come la processione religiosa. E d’altra parte era anche poco democratica visto che le donne non potevano partecipare e gli uomini facevano le parti da donna. Quest’allontanamento delle donne dalle processioni l’hai potuto notare? Fatte salve le eccezioni in cui si porti in processione una donna.

Verdadera historia de la invencion de los cuerpos santos…
1 #
jahira
xjahirax.wordpress.com
jahira@virgilio.it
87.2.20.133
Inviato il 26/02/2013 alle 22:21
una sola ne e’ rimasta, quella più’ vecchia e più’ stanca. Basta combattere 🙂

LUDIKA MIMESIS

Lezioni condivise 67 – A passion play

31 Lug 2012 @ 10:52 PM

Ricostruire le origini certe della Sacra rappresentazione è un po’ come cercare la vera sorgente del Danubio, non per questo si deve evitare il ragionamento, ricercare almeno una base di discussione. D’altra parte il rischio, per questo genere di passeggiate, è che ci portino fino al paradiso terrestre e anche qui avremmo il dubbio se la genesi sia sacra o profana.

Non spingendoci oltre l’antica Roma possiamo tuttavia già isolare dei significativi elementi e affermare che questo genere drammatico, che si sviluppa nel lunghissimo periodo medievale, si forma attraverso la complessa contaminazione con le manifestazioni profane e pagane di epoca romana, iniziate già trecento anni prima di Cristo.

Un elemento fondamentale è certamente la fabula, che fin dal tempo dell’antica Roma designava ogni genere di rappresentazione teatrale di carattere collettivo, popolare, organizzato dallo stato stesso nell’ambito dei ludi pubblici. Gli attori, esclusivamente maschi, erano quasi tutti schiavi o liberti, recitavano anche le parti femminili. Gli autori erano di bassa condizione sociale e nessuno di loro era romano. Le autorità esercitavano sulla fabula una censura preventiva, controllando ciò che si metteva in scena.

Altro elemento è il corteo, curiosamente coinvolto nel discorso sotto i diversi aspetti afferenti il suo significato, piuttosto dinamico se si va dall’etimologia fino agli ancora attuali cortei studenteschi/operai/femministi e via dicendo o alle processioni dei santi, tutte rappresentazioni, manifestazioni.

In realtà il corteo, ha a che fare con la corte, il recinto, le mura che circondavano la rocca su cui si ergeva il palazzo del re, il cui seguito fu anch’esso denominato corte; il corteo è la corte che si muove o sta anche ferma e fa compagnia, accompagna. La fabula si sposta dalla strada o dal teatro a corte, davanti al trono da cui il re vi assiste circondato dal suo gruppo.

Impossibile fotografare tutte le interferenze, diramazioni e intersecazioni che hanno riguardato il fenomeno. Dall’impasse usciamo con una scena posteriore, millenaria, di un corteo che si snoda in pubblico, con le portantine trasportate dalle Confraternite e che è parte di una fabula, ove lo spettatore è anche attore. Questa manifestazione non si svolge a teatro ma a corte. Partiamo da qui con la fusione di tutti gli elementi originari della Sacra rappresentazione: la fabula, il corteo, l’elemento sacro, il luogo ove si svolge.

Ma tutto ciò è complementare, contorno, la Sacra rappresentazione è in realtà un genere letterario di argomento religioso che allo stesso tempo trae ispirazione dal dramma liturgico (la cui etimologia rimanderebbe ancora al popolo, ma il cui uso corrente, religioso, intende che è per Dio) e contiene il dramma liturgico stesso, quello della passione, che si sviluppa agli albori delle letterature nazionali europee e ha aspetti differenti da nazione a nazione.

La prima Sacra rappresentazione viene considerata il Jeu d’Adam ed è precedente al Duecento. Dello stesso genere dei jeux (rappresentazione) sono i miracles e i mystère, che ebbero poi il sopravvento. In Italia il genere è legato alle Laude e paradossalmente per questo meno legata ad ambienti clericali e più popolari.

Nel nostro immaginario la Sacra rappresentazione ha fermato il tempo, eppure la spettacolarizzazione ne ha forzato confini e apportato delle modifiche alla tradizione, nel tentativo di rendere tattile il mistero; anche la liturgia ne viene investita con la frammentazione del Passio, il venerdì santo, non più letto dal solo celebrante, attore, cristo, che esercita l’actio, mentre i chierici e altri (sempre escluse le donne, salvo novità tardive) rappresentano il dramma, passio, narrazione, folla. I chierici vestono in albis come nella Roma antica.

La Sacra rappresentazione entrò dunque nella liturgia o viceversa, non era più un dramma sacro, si era trasformato a tal punto da essere laicizzato. Così, sebbene queste rappresentazioni paraliturgiche avvenissero dentro la chiesa, la chiesa come istituzione proibì ai chierici di parteciparvi. Il secondo passo fu estrometterle. Il pretesto fu che vi partecipava una folla troppo numerosa da non poter essere accolta negli edifici sacri; ma non si trattava di questo, il problema vero fu che la chiesa si accorse di non riuscire più a controllare quella sua creatura.

Così con gli Acta Nodarum, anche i Vescovi sardi impedirono questo drama (comprendendo anche i canti a tenore e i balli sardi). A Cagliari si conserva memoria di una commedia pubblica del 1618, in piazza palazzo, a fianco alla cattedrale.

I divieti attraggono e la rappresentazione del Passio andò diffondendosi tra i trovatori, menestrelli e giullari. Dopo alcuni decenni questo fenomeno diventò adulto e autonomo, venne adottato dalle corporazioni e si trasferì nelle vie del paese, nelle campagne…

All’ora nona di venerdì santo la processione parte, si snoda per le vie del paese, fino a percorrerle tutte. Gli attori sfilano a testa bassa in abiti scuri, qualcuno ha della cenere in testa in segno di penitenza, qualcuno è scalzo. Davanti al corteo sfila la portantina – su cui è disposto il Cristo morto, pallido di grandezza naturale, il volto rigato di sangue e il capo incoronato di spine – retta da is cunfradis salmodianti, vestiti di tuniche con cappuccio munito di buchi per gli occhi… Lungo il percorso i balconi e le finestre sono gremiti di gente che si segna al passaggio…

Tutto il mondo della Sacra rappresentazione si trasferisce nella scena popolare, dopo un percorso movimentato e ai giorni nostri le processioni ripercorrono lo stesso itinerario antico. Il pubblico è sempre anche attore. E’ ora un fatto completamente laico, reale, “concreto”, la città diventa spazio scenico di mimesis, rappresentazione.

(Storia del teatro e dello spettacolo – 5.2.1997) MP

Commenti (3)

Ludika mimesis
3 #
Paola
p.vecchiotti@tiscali.it
93.40.146.130
Inviato il 07/12/2012 alle 10:06
…credo che Ungaretti sia in buona compagnia nel mondo dell’arte. Voglio dire che molti sono stati (e sono) i grandi che eccellono in campo artistico, ma che umanamente sono un pò discutibili. Io tendo a separare le cose, a valutare il prodotto del loro talento, e a valutare l’uomo a parte…

Ludika mimesis
2 #
marta
britishschoolatrome.wordpress.com/
beard@string.com
118.98.35.251
Inviato il 10/08/2012 alle 23:46
Very cool

Ludika mimesis
1 #
genny
redglaze.wordpress.com/
sani@yahoo.com
59.177.2.44
Inviato il 20/07/2012 alle 12:04
Is it possible to lay on these types of planks

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