DALLA TIRANNIA DEI NOBILI ALLA PREPOTENZA DEGLI IGNOBILI

Lezioni condivise 54 – La nobiltà sarda

30 Giu 2011 @ 10:57 PM

Anche questo come ogni argomento storico non è privo di interesse in quanto avvenuto, ma il pensiero va immediato a tutti i braccianti, un tempo semplicemente “servi”, a quel quarto stato descritto stupendamente in Novecento di Bertolucci, a tutti coloro che sono stati sfruttati, dai fattori, dai podatari, dai printzipales al servizio dei signori, dei feudatari, della nobiltà, dei regni, insomma dello stato, quello stato che ancora oggi che la nobiltà scarseggia anche come semplice sostantivo, si riempie di privilegi a danno dei comuni cittadini e soprattutto dei lavoratori.

Storicamente dunque la nobiltà è stata un tempo la classe dominante, la casta, quella che deteneva i privilegi per se e li faceva pagare al popolo; da questo punto di vista nulla di nuovo, questo genere di “nobiltà” ha solo cambiato nome.

Anche in questi mesi chi ha in mano lo stato ci sta dimostrando quanto è nobile: ha diramato per mezzo della stampa di proprietà la supposta volontà di non aumentare le tasse, anzi di volerle diminuire e soprattutto voler tagliare i privilegi della casta, tassare i più ricchi e via dicendo. I risultati li abbiamo visti, ma siccome (volendo) si possono ascoltare anche le poche voci non compiacenti, sapevamo già tutto: le loro tasche se la caveranno con una finzione di austerità, con qualche ritocchino irrilevante; la crisi invece la pagheremo sempre noi, con ticket, con l’aumento della benzina, con il blocco delle assunzioni e degli stipendi dei ceti meno abbienti, mentre i loro se li sono aumentati di recente e non li toccheranno di sicuro: più che elezioni qui serve una rivoluzione, forse l’unico modo per rimettere i conti a posto in modo equo. Diciamo che stanno superando il livello di guardia della pazienza popolare… e si permettono pure di alzare la voce… vedi TAV e altre emergenze, troppe…

Tornando al tema storico, cito due libri che danno un’idea efficace del marciume della “nobiltà”: “I vicerè” di Federico De Roberto e “Il gattopardo” di Giuseppe Tomasi Di Lampedusa, ancora più efficace perché la tratta da un punto di vista interno.

Quanto al mio parere, posso citare dei versi di alcuni anni fa, “Arrexinas nobilis”, dove esordivo così: “…E custa/ po si fai sciri/ ca sa nobilesa/ est prus parenti/ a terra e traballu/ chi a sa richesa./ De reis e printzipis/ mira sa mata (…E questa/ per farvi sapere/ che la nobiltà/ è più affine/ alla terra e al lavoro/ che alla ricchezza./ Di re e principi/ ecco l’albero genealogico)… e a seguire un elenco di titoli nobiliari d.o.c.: muratori, falegnami, pastori, manovali, scalpellini…

Il concetto di nobiltà per censo è sempre esistito anche in Sardegna, sarebbe complesso risalire all’origine, si parlava di Rex (che in origine era al servizio del popolo, governava la cosa pubblica nell’interesse della sua gente, poi con il tempo tutto si è capovolto) già nel periodo nuragico, poi attraverso lunghe dominazioni straniere, si pervenne ai Giudicati, con una nobiltà tradizionale e stratificata vicina a quella tradizionale, con in cima il Re Judike e sotto i donnos, donnikos, donnikellos, curadores, majorales, fino all’appellativo di rispetto deddu dei signorotti.

Quando si parla di nobiltà sarda tout court, ci si riferisce però a quella introdotta dagli aragonesi con il feudalesimo, mai esistito in Sardegna prima di loro. De “jure” la nascita si può ricondurre all’invenzione di Bonifax del Regno di Sardegna, nel 1297, de facto al 1323, quando inizia la conquista. Allo stesso modo, si parla di fine della nobiltà sarda con l’abolizione del feudalesimo, circa 450 anni dopo, esattamente nel 1843.

Oggi della nobiltà sarda è rimasto solo un atteggiamento, un titolo da scrivere nei biglietti da visita e per chi non si è impoverito e si è pure dimenticato della nobile origine, una condizione sociale da esibire o meno discretamente a seconda delle personalità e sensibilità interessate.

L’antica nobiltà giudicale fu spazzata via dagli aragonesi, a testimonianza che rappresentava solo uno strumento del potere di turno. Essi concessero inizialmente i feudi e titoli nobiliari a coloro che li avevano aiutati a combattere contro i Doria nel sassarese. I benefici vennero concessi more italico (secondo il costume d’Italia, che prevedeva solo la successione maschile a partire dai primogeniti, che potevano trasmetterla agli eredi maschi, in mancanza dei quali il feudo tornava in possesso del re). Bisognava risiedere nel feudo, cosa che la nobiltà spagnola, eccetto alcuni casi, disattese, mettendo in capo ai feudi dei delegati, i cosiddetti podatari.

Le prime investiture ebbero il privilegio nobiliare della “generosità”, che cadde poi in disuso per essere sostanzialmente smembrato in quelli del cavalierato e della nobiltà sarda (con i titoli di Don e di Donna). L’ultima generosità fu concessa nel 1498, in seguito si adottarono riconoscimenti feudali minori, in quanto la Spagna fu attenta a non creare in Sardegna nobiltà superiori a quelle dei propri hidalgos e ricos hombres.

La materia è abbastanza complessa, con tanti distinguo; venivano tramandati titoli non ereditabili o ereditabili solo in linea retta; altri titoli a volte risultano superiori, talvolta no. Insomma pare fosse tutto piuttosto flessibile, tanto è vero che alla fine per dirimere le controversie fu necessario che il Tribunale della Reale Udienza esaminasse caso per caso.

La concessione del feudo era prerogativa del re, perché riguardava la terra del regno; sostanzialmente il regno era considerato una sorta di grande allodio reale, una proprietà privata della quale il Re poteva disporre a proprio piacimento. E i feudatari sardi, così lontani dal centro del potere reale, e dunque più liberi, si comportavano nel feudo come si trattasse di terreni propri.

L’allodio in quanto tale peraltro era largamente presente in Sardegna, come proprietà privata esente da vincoli feudali e anzi rappresentava un ostacolo per il feudi.

L’introduzione del feudalesimo in Sardegna in un periodo così tardo, comportò delle fasi di instaurazione dello stesso con la forza. La prima fase fu infatti militare, cui ne seguì una mercantile, che cessò nel cinquecento, quando venne impedito il possesso del feudo a chi non era nobile. La diminuzione della concessione di titoli nobiliari nella fase di unione tra regno castigliano e aragonese, è dunque dovuta anche all’arroccamento della vecchia nobiltà in difesa dei propri privilegi.

Al parlamento sardo (cortes o stamenti), relativamente al braccio militare, poteva partecipare solo la nobiltà sarda, occorreva essere naturali sardi, nativi, o sposare una donna sarda. Vi erano poi anche i bracci ecclesiastico e reale (sindaci delle città, rappresentanza civile, laica).

Il nobile in Sardegna era anche un cavaliere (generoso), ma il cavaliere sardo (di spada) pur essendo nobile, non ne poteva portare il titolo. I semplici cavalieri spesso venivano definiti con il titolo di “donzel” (donzello), ma in realtà questa dovrebbe essere la qualifica per l’erede non armato del cavaliere. Questi, ottenuto il titolo, doveva pagare una certa somma alla corona, “volontariamente”. Il re rilasciava i privilegi, le cosiddette patenti. Ricevute le quali, il sigillo veniva messo dappertutto. I diplomi di cavalierato e nobiltà, una volta ottenuti, dovevano essere presentati alla Reale Udienza per la registrazione, pena la decadenza. La cerimonia di investitura era simile a quelle del medioevo.

Insomma per molti versi le regole della nobiltà sarda furono molto particolari e diversificate rispetto a quelle di altri territori, basti l’esempio della possibilità di unire cavalierato a nobiltà, anche se non si può garantire più di tanto, perché le eccezioni, anche non codificate, sono tante sia per epoca storica, sia per località geografica.

L’argomento è una babele pure per gli addetti ai lavori, gli eredi dei nobili, peraltro divisi anche nell’interpretazione storica dei titoli disponibili, a volte con semplificazioni, altre con complicazioni. In tempi recenti l’ associazione della nobiltà sarda ha abbandonato quella italiana proprio per punti di vista divergenti sulle attribuzioni. Non è chiaro perché fossero associate, cosa avessero da spartire storicamente.

Non rimpiangiamo quella realtà, accanto a questi riti suggestivi e lontani, che possono stimolare la nostra fantasia, la nostra cultura letteraria, con i cicli dei romanzi cavallereschi, vi era gente che viveva nella miseria, nello sfruttamento e faceva la fame; anche per rispetto a questi nostri avi, oggi non dobbiamo tollerare alcuna ingiustizia sociale, palese o mascherata che sia. Il Guillaume d’Angleterre è solo un romanzo.

(Storia della Sardegna – 8.5.1996) MP

Commenti (5)

Dalla tirannia dei nobili alla prepotenza degli ignobili
5 #
BoyerKarla18
bestblog.com
saraward@mail333.com
188.143.232.199
Inviato il 15/07/2011 alle 00:39
Really useful.

Dalla tirannia dei nobili alla prepotenza degli ignobili
4 #
emma
chidicedonna.myblog.it
g@alice.it
87.0.242.50
Inviato il 07/07/2011 alle 23:00
Sei sicuro che la vera nobiltà sta in chi lavora la terra e lavora?
Il lavoro nobilita l’uomo?
Diciamolo che è la più grande fesseria!
Chi lavora pensa poco, si nobilita poco in realtà.

Dalla tirannia dei nobili alla prepotenza degli ignobili
3 #
sally brown
innellama@tiscali.it
79.10.34.34
Inviato il 02/07/2011 alle 10:21
di privilegi, appunto parliamo e di privilegiati in nuove classi
questo invece
http://www.avaaz.org/it/it_internet_bavaglio/?vl
è un’altra cosa?
ole/.)

Dalla tirannia dei nobili alla prepotenza degli ignobili
2 #
giulia
chidicedonna.myblog.it
g@alice.it
82.58.170.200
Inviato il 01/07/2011 alle 22:14
Stasera nn ho voglia di leggere. Leggi tu e poi riassumi, thanks 🙂
http://www.tesoro.it/doc-finanza-pubblica/mf/2011/index.asp
(176 + 16 pagg.)

Dalla tirannia dei nobili alla prepotenza degli ignobili
1 #
Paola
lamiavitabellaebrutta.blog.tiscali.it
paolasixsix@yahoo.it
159.213.40.5
Inviato il 28/06/2011 alle 14:47
…oh come mai gli italiani non facevano paura a nessuno??
meno male che oggi siamo il faro della civiltà!!!!

CHI TI CURRAT SU BUGINU!

Lezioni condivise 43 – Il banditismo di massa

 30 Giu 2010 @ 10:41 PM

Achtung! Bandidos! … E’ toccato pure ai partigiani… Da tempo ormai il disordine costituito denomina “bandito” tutto ciò che gli si oppone, non a torto o a ragione, ma sempre a ragione.

E’ sempre stato così, ma nel passato storico le situazioni erano più limpide, più intelligibili dalle masse popolari, ciò era fondamentale perché esse potevano schierarsi con chi era dalla loro parte.

Non mi pare che questo sia più possibile oggi, anni di politica basata su scandali e corruzione (altro che seconda repubblica… seconda a che?) hanno intorpidito, ipnopedizzato, normalizzato l’opinione pubblica; la gente comune non reagisce più, accetta passivamente qualsiasi cosa si faccia a suo danno, non è più capace di scegliere la sua parte, anche perché non c’è, è vero, ma proprio in queste situazioni nascevano un tempo le grandi mobilitazioni popolari, le sommosse, le rivoluzioni…

Che il regime cazzarocratico non abbia dunque banditi, briganti, sovversivi da combattere, non è un buon segno per la democrazia, la libertà, la giustizia.

Questo non significa che si debba essere clementi nei confronti dei tiranni del passato.

La strategia coloniale di sfruttamento della Sardegna da parte piemontese fu palesemente subdola. I Savoia si insediarono in Sardegna malvolentieri; re servi delle potenze più forti, si videro sottrarre la Sicilia dall’Impero austriaco ed ebbero in cambio, nel 1718, la Sardegna, che cercarono subito di barattare con altri territori del nord.

Ho già fatto cenno al non certo “gentile” dominio catalano-aragonese e spagnolo dei secoli precedenti, ma l’avvento piemontese, quanto ad arroganza, mancanza di tatto e rozzezza, è rimasto senza pari.

Dopo aver tastato il terreno presso le élite cittadine, non certo del popolo, non trovarono di meglio che cercare di amalgamare tutto ciò che era espressione della Sardità (tranne ciò di cui non si resero neanche conto e che per questo abbiamo conservato) al loro modus vivendi, ovviamente fallendo… Vedi questione della politica agricola…

Una volta preso confidenza con i luoghi e con la gente, cercarono anche di creare truppe provinciali organizzate sul modello piemontese, dunque di istituire la leva militare, servendosi per questo dei Consigli comunitativi, organismi locali di governo delle ville (sorta di consigli comunali), da cui erano escluse le classi meno abbienti, i braccianti… Tuttavia, spesso, questi organismi locali non erano affatto succubi e obbedivano malvolentieri, specie dove era ampiamente rappresentato il terzo stato (contadini, artigiani, commercianti)…

Il risultato di questa manovra, decisa dall’oggi al domani, fu il netto rifiuto, la diserzione, la latitanza e dunque l’espansione del fenomeno del “banditismo”, cioè una componente resistenziale al potere costituito; alternativa a questa scelta estrema della latitanza, fu, specie nel 1843, la massiccia richiesta di esonero.

Fallì così il primo tentativo di leva militare in Sardegna e la creazione di truppe provinciali.

Vittorio Emanuele I aveva fatto anche le figurine sul modo di vestire dei soldati, tipo figurine Panini… ma non se ne fece nulla, pare non ci fossero nemmeno le risorse economiche necessarie.

Altra iniziativa dei nuovi padroni fu l’attacco alla nobiltà spagnola, ormai insediatasi da diverse generazioni nell’isola, al fine di limitare la loro “giurisdizione” con la creazione delle Prefetture, strumento capillare di controllo del territorio. Si intendeva compensare la nobiltà concedendo facoltà di elezione nei Consigli comunitativi, esistenti fin dal 1771. I nobili sarebbero stati eletti in liste bloccate, suddivise per classi. Le classi rappresentate erano due, quella media (commercianti, artigiani…) e quella aristocratica (proprietari, nobili). Il quarto stato veniva sempre più escluso con vari pretesti (come il non avere la possibilità di acquistare quanto serviva per fare il consigliere comunale!). In generale gli addetti a lavori manuali servili, erano esclusi dal Consiglio.

E’ vero che i sardi negli anni della rivoluzione lottarono soprattutto contro l’arroganza e lo strapotere feudale, ma l’intervento piemontese non ebbe certo lo scopo di liberare i sardi da quel giogo, ma di accentrare il più possibile il potere nelle mani dei nuovi tiranni…….

Ancora nel 1812 Francesco d’Austria d’Este parlava del popolo sardo come buono e assoggettato e per i sardi, visto come andavano le cose, non era certo un complimento. In tempi di carestia, i cui effetti esplosero drammaticamente solo quell’anno, solo una piccola avanguardia ebbe ancora la forza di reagire con la “congiura di Palabanda”, scoperta per una soffiata e repressa violentemente.

I cattivi raccolti degli anni precedenti culminarono in “s’annu doxi”, l’anno della fame, crebbe il pauperismo delle ville ridotte in miseria dal “grano del re”, la riserva per Cagliari, l’insierro, quello che dovevano versare privandosene loro che non ne avevano neanche per se stessi. Così iniziò lo spopolamento delle campagne e una massa di poveri, di mendicanti, si spostò in città, in parte accolta nel Lazzaretto, presso il convento di San Lucifero. I problemi si moltiplicarono, si diffuse la peste; nacque la questione dei majoli, studenti dell’entroterra che per mantenersi si mettevano al servizio di famiglie benestanti e subivano costantemente il controllo della polizia.

Se, come ho già ricordato, la memoria de “su famini de s’annu doxi” è giunto fino a noi nei modi di dire popolari, questo è più che sufficiente a comprendere il fenomeno del banditismo e lo stato in cui veniva tenuto un Regno, una terra, che se amministrata diversamente da “s’aferra-aferra”, avrebbe potuto cavarsela anche in situazioni d’emergenza. Al re piemontese invece interessava solo mantenere il suo tenore di vita, avere il superfluo anche mentre la gente moriva di fame.

(Storia della Sardegna – 24.4.1996) MP

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