ERIT SALUS IN GREMIO VIRGINIS

Lezioni condivise 80 – Società spagnola moderna.

30 Ago 2013 @ 10:00 AM

Ricordo a me stesso perché il programma di Storia Moderna in Sardegna è così denso di storia spagnola. Perché è soprattutto la Spagna ad essere protagonista nel mondo nella prima parte dell’Età moderna, e per quanto riguarda la Sardegna, essa è stata legata alla corona Aragonese un secolo e mezzo prima della conclusione del medioevo e successivamente alla Spagna riunificata fino al secondo decennio del Settecento, mantenendone la lingua (oltre al sardo) per almeno un altro secolo e diverse tradizioni culturali sono ancora vive oggi. La storia di Sardegna e la storia spagnola per alcuni secoli si incrociano più che con qualsiasi altra. Naturale dunque che il riferimento storico moderno prevalente sia alla Storia di Spagna.

Ho già fatto cenno nella lezione 77 che la nobiltà castigliana osteggiò il matrimonio tra Isabella e Ferdinando. I contrasti tra la Castiglia e gli altri regni formatisi durante la Reconquista avevano radici profonde. La Castiglia si sentiva erede del regno Visigoto, pertanto non aveva visto di buon occhio la nascita degli altri regni autonomi, compreso quello d’Aragona. Peraltro anche dopo il matrimonio i due regni restavano divisi, ciascuno come bene privato dei rispettivi sovrani, situazione che si superò solo di fatto quando Carlo V, nipote dei sovrani, figlio di Giovanna, divenne l’erede unico, in quanto ufficialmente continuavano ad esistere il Regno di Castiglia e quello d’Aragona, potendosi dunque parlare di Corona di Spagna, come unione di più regni, più che di un regno di Spagna.

Il 1492 è una delle date che vengono adottate per segnare la fine del Medioevo e l’inizio dell’Età moderna, è l’anno in cui Colombo approda nel nuovo mondo, che si frapponeva nell’Oceano tra Europa e Asia. Esso era già stato toccato dai popoli scandinavi nel X secolo, senza che fosse chiaro trattarsi di un nuovo continente. Era un periodo storico in cui le scoperte geografiche non erano volute come del XV secolo, quando si succedettero in pochi anni nuove esplorazioni lungo le coste dell’America, e che si trattava di un nuovo continente fu compreso da Vespucci nel 1501.

Il regno di Isabella era nella sua pienezza, era ormai uno stato moderno e si sentì il bisogno di organizzare un esercito nazionale; erano ormai emersi i limiti delle armate mercenarie medievali.

La necessità fu contingente, stante la durata della guerra con il sultanato di Granada, ben 11 anni e conclusero la reconquista (1492). Proprio in quegli anni veniva introdotta nei conflitti un’arma da fuoco, l’archibugio. Ma l’esercito fu impiegato anche per le conquiste in Europa, in particolare per il mantenimento del predominio in Italia.

Nelle nuove truppe, costituite da professionisti, retribuiti, emergeva la fanteria, a scapito della cavalleria pesante; c’erano soldati che rimanevano in attività tutta la vita. L’esercito era suddiviso in Tercios (ogni tercio contava 3000 uomini). L’esercito spagnolo dominò sui campi di battaglia fino alla guerra dei trent’anni (1659), quando subì la sconfitta dalla Francia .

In questo esercito avevano importanza determinante i nobili, considerati parenti del sovrano, che ottenevano gli incarichi più importanti.

Nello stesso periodo cominciarono ad affermarsi nella società spagnola i “letrados”, solitamente non nobili, ma laureati in diritto civile e canonico (utriusque iuris doctor, uid); il termine inizialmente indicava gli uomini di lettere, poi finì per indicare i giuristi e infine gli avvocati. Nel castigliano attuale indica entrambe le cose, e in generale chi svolge un lavoro intellettuale.

Gli artigiani erano organizzati in Gilde (società, fratellanza), secondo le corporazioni già esistenti in Catalogna e Aragona, denominate Gremi. Ciascuni di essi aveva un santo protettore e una cappella (es. Sant’Elmo, patrono lavoratori del porto). A Burgos c’erano i Consulados de mar per l’esportazione della lana.

Il termine gremio, dal latino grembo, ha un’origine religiosa, inizialmente pagana, poi adottata in certi ambienti cristiani delle origini. Riguarda la profezia delle sibille, vergini depositarie di capacità divinatorie per il loro voto di castità: Erit salus in gremio virginis, che significa La salvezza ci verrà dal grembo di una vergine.

Tuttavia in latino corrispondevano alle Universitates o Collegia.

I gremi si diffusero in tutta Europa, in Italia furono definite Arti, in Francia Guildes, in Inghilterra Guilds, in Germania Zünfte, in Veneto fraglie (dal latino “fratalea”, cioè “fratellanza”).

I Gremi attecchirono notevolmente in Sardegna, ve ne sono diverse testimonianze in storici statuti di Società di mutuo soccorso tra artigiani, ma soprattutto in varie rappresentazioni civili, sempre tra il Cristiano e il pagano, come la Faradda (discesa) di li candareri di Sassari e soprattutto Sa Sartiglia di Oristano.

(Storia moderna – 24.2.1997) MP

Commenti (3)

Erit salus in gremio virginis
3 #
Paola
lamiavitabellaebrutta.blog.tiscali.it
paolasixsix@yahoo.it
159.213.40.2
Inviato il 02/09/2013 alle 12:35
l’unione fa la forza…:-)

Erit salus in gremio virginis
2 #
Paola
ilcestinodeicotoni.iobloggo.com
annamariaporcelli@libero.it
79.42.79.23
Inviato il 01/09/2013 alle 15:49
Dopo il forzato congedo da Splinder non mi sono ripresa. Il mio cestino dei cotoni si trova su più piattaforme e forse quella il cui linguaggio riesco ad usare con meno difficoltà è “iobloggo”.
Ora ho da leggere quanto ho perso dei tuoi vari siti.
Un carissimo saluto.

Erit salus in gremio virginis
1 #
Alessandra
sefosseche.myblog.it/
sefosseche@virgilio.it
87.17.240.246
Inviato il 23/08/2013 alle 15:38
ho ricambiato la tua gradita visita… sono appena rientrata dalle ferie… disfo la valigia e ripasso da te ^__* ciao

SARDOS ETIAM, QUI NON LATII SUNT…

Lezioni condivise 65 – Linguistica sarda

 31 Mag 2012 @ 7:48 AM

E’ noto che i romani, man mano che ampliavano il loro impero, imponevano anche la propria lingua, il latino. Immaginando quella vasta area linguistica, non dobbiamo pensare al radicamento di un idioma perfettamente identico alla lingua di Roma, ma comunque variabilmente uniforme, giacché si sovrapponeva alle lingue originarie, che in qualche modo lo contaminavano, generando territorio per territorio un superstrato linguistico, oltre a costituire un substrato. Un altro elemento di differenziazione – giacché l’impero romano non sorse di colpo con la bacchetta magica, ma si ampliò o si restrinse nell’arco di undici secoli (quello d’occidente) – è costituito dalle differenti ondate linguistiche di un latino mutato rispetto a conquiste precedenti (basta anche un solo secolo perché una lingua subisca dei cambiamenti significativi) e dunque si presentava nel tempo, ai diversi popoli assoggettati, in forme, soprattutto lessicali, nuove.

Un fenomeno molto più rilevante si verificò alla caduta dell’impero, quando con la formazione di nuovi stati o domini, molto più frammentati, sul latino si sovrapposero con modalità differenti da luogo a luogo, nuovi idiomi o in ogni caso, non essendovi più un governo centrale unitario, la lingua prese una strada differente da stato a stato, da territorio a territorio, dando vita alle lingue romanze (o neolatine), imparentate ma diverse, anche questa volta con difformità spazio-temporali, mutazioni e contro mutazioni, fino alla situazione attuale.

Tuttavia, parlare di situazione attuale è più facile da dire che da spiegare, infatti, esagerando, potremmo quasi dire che per ogni linguista vi è una ricostruzione distinta del contesto, sebbene in particolari che possono anche sfuggire a una ricostruzione generale.

Possiamo dunque prudentemente affermare che esistono circa 26 lingue romanze, suddivise in due domini principali, orientale e occidentale, con aree di influenza mista.

Le lingue romanze più note sono lo spagnolo (castigliano), il francese (parigino, d’oil), il rumeno, l’italiano (fiorentino e varianti meridionali), il portoghese, l’occitano (provenzale, lingua d’oc), galloromanzo, franco provenzale, catalano, sardo, guascone, veneto (antico, pressoché estinto), asturiano, corso, friulano, ladino, romancio, istrioto, dalmatico (estinto). 

L’elenco non è completo, essendovi idiomi minori, parlati ancora solo in piccole comunità, tuttavia è redatto secondo le norme della Carta europea per le lingue minoritarie, che riconosce tali quelle “lingue che non sono dialetti della lingua ufficiale dello Stato”.

La lingua sarda è ritenuta da molti studiosi la più conservativa tra le lingue neolatine. Giova ricordare che essa è basata su un sostrato prelatino (che potremmo definire genericamente nuragico), già ampiamente tagliato dai contatti avuti con vari altri popoli, dai fenici ai cartaginesi. Inutile dire, dato che si tratta di epoche remote, che non è ipotizzabile l’esistenza di un idioma unico in tutta la grande isola (un’idea efficace può darla la lettura di Passavamo sulla terra leggeri di Enrico Atzeni), soggetta dalla sua stessa conformazione e storia, a sovrapposizioni linguistiche differenti.

La variabilità areale del sardo è stata una costante anche nelle epoche successive, ne possiamo ancora oggi osservare l’esistenza dovuta ai diversi contatti linguistici da zona a zona.

Dall’introduzione della lingua italiana, il sardo ha agito sulla stessa dando luogo all’italiano regionale di Sardegna, come è avvenuto nell’intero dominio di questa lingua (compreso il fiorentino da cui ha origine) e agisce sulla sintassi, la morfologia, il lessico e tutta una serie di fenomeni di cui do solo un’idea allo scopo di “intuire” il resto.

Una delle interferenze più note del sardo sull’italiano è la posposizione del verbo.
es.: la mela vuoi? risposta: la mela voglio. In Elias Portolu: “Ragione ho. Si o no?”
Vincere sempre vuoi! Vino buono ha zio Portolu (con il complemento in posizione iniziale).
Aggettivo + che + verbo: Antipatica che sei! Che buono che è!
Verbo essere: Andati siamo. Piovendo è. (Regionale di Sicilia: vero è).
L’argomento è piuttosto complesso e rimando a L’italiano regionale della Sardegna della prof. Ines Loi Corvetto (1983).

Un altro aspetto interessante è quello delle varianti di tipo sociale: i gerghi. Vi è ad esempio il gergo della malavita, i gerghi di mestiere (venditori ambulanti), quelli criptici, segni di identità, distintivi anche in pubblico. O l’antico furbesco italiano (sorta di esercizio letterario con tanto di codice manoscritto di un vocabolarietto di voci furbesche. Buiose = finestre; bistolfo = prete, polverosa = via… Il gergo dei muratori, che è in realtà un linguaggio tecnico. Quello studentesco invece è un codice di repertorio, linguaggio giovanile.

In Sardegna è interessante il gergo dei ramai di Isili, noto tra i gremi dei ferrai e tutelato gelosamente, quasi segreto. Per essere accolti nel gremio occorreva dare prove d’arte ed essere incartati (diplomati) presso un artigiano. I ramai erano artigiani e rivenditori, il gergo era la lingua di questi ultimi.

Da studi più accurati si è potuto dedurre che il “gergo”, oggi in via di estinzione a causa dei nuovi usi e abitudini commerciali, era originariamente il romanisku o pavela romaniska o arbareska (in sardo: arromanisca), in quanto i primi ramai erano di origine zingara. La lingua è poi venuta a contatto con il sardo, con il giudeo-spagnolo (judezmo) dei sefarditi – espulsi da Spagna e Portogallo nel 1492 e transitati per la Sardegna – e con altri gerghi: della malavita, del furbesco e vari altri dei calderai. Dalla sua analisi emergono anche termini albanesi e neogreci.

Alcuni esempi:
Rossinu = Oro (concezione del colore legato alla cultura. Il rosso arcaicamente copriva anche il colori bruni – macrorosso -, opposti al bianco).
Allusca (osserva), su trotònniu est ispissau (il caldaio è rotto).
Est iscalli assai vi sa strangedda (è molto rovinato il manico)
Sedici, l’aribari (asiberi/asibari) at allusa (si, io l’ho visto)
Safrongiat l’aribari, voi mucedda (me ne occupo io, tu taci)
Su cabeddari s’in c’est onciau (il padrone se n’è andato)
Su trotonniu cubelle pigedda (non ha preso il caldaio)
Fai fagionnia cun se giantedda ca su daddu est assai cresiau (dati da fare con la figlia perché il padre è molto ubriaco).
Venditori ambulanti più poveri:
Es càllia cubelli fuschieri nemeneu (nemenen) po trotonius de rossinu (E’ bella ma non fa l’amore neanche per un caldaio d’oro)
Chi m’afinat tiaus s’idd’afinu (se mi danno formaggio glielo do)
Po trint’aiustra, sedici afinari (per trenta libbre, sì dallo)
Afrogia po cresia e po sgnenari (sgranari) (tratta in cambio di vino e di grano)
Sedici, ochieri, voi (vai) calandrinu (si, somaro, tu somaro)
Lessico malavita:
Trionfa = carne, rapa = rapina
Suspu (gergo, lingua segreta con meccanismi al contrario, o introducendo sillabe, suffissi o prefissi, come “ma”, per renderlo incomprensibile).

Il tema mi porta a una suggestione tutta mia, a diversi anni fa, quando poltrivo a letto d’estate o in vacanza, e di buon mattino, qualche volta all’anno, si sentiva per la strada un canto struggente di venditori; non ricordo di averli mai visti e quando mi decisi a registrarli, non passarono più. Ne passavano di diversi tipi, verdurai, pescivendoli, l’arrotino, castangiàius, ma solo questi adottavano un canto. Vendevano turras e talleris, insieme a tanto altro, ma i mestoli e i taglieri, la facevano da padroni, insieme a is istrexus de fenu, cioè recipenti di fieno (scateddus – cestini -, cibirus – setacci -, crobis – ceste -, e via dicendo).

Da notare la testimonianza di Giuseppe Concas (www.nominis.net):
Ai primi di settembre, di buon mattino, le strade dei paesi si riempivano di cantilene e nenie melodiose (anche il canto aveva la sua importanza); e tu vedevi quegli uomini carichi di canestri e cesti di vimini e di canne, con le sacche di orbace (is bértulas) piene di mestoli e cucchiai di legno: “E tùrras e talléris e palas de forru… e cullèras. Cullèras bollit, sa mèri? Comporài cilìrus, scartèddus, crobis e canistèddas… dda pigat sa crobèdda…sa mèri”? (…)
Il “canto” dei rivenditori de “su stréxu de fénu e turras e talleris e palas de forru” non si sente più e sembrano passati secoli, anche se in verità sono trascorsi pochi decenni. Ancora oggi, comunque, nelle bancarelle delle sagre paesane è possibile ammirare i “capolavori” di quegli artisti estemporanei.
Documento interessante anche quello di Mario Virdis, nel suo blog http://amicomario.blogspot.com/, post “Turras e Talleris: gli scambi senza danaro nel dopoguerra, il ‘baratto’… di necessità”: “Questo bando era costituito da una nenia, recitata in modo quasi ‘gridato’ che reclamizzava i prodotti in vendita. La ricordo ancora sia nell’intonazione che nelle parole: E si ettada su bandu! Tenimos turras, talleris, pajias de forru e culleras!”

La poesia S’ambulante tonaresu di Peppino Mereu,
Cun d’unu cadditeddu feu e lanzu
sa vida tua a istentu la trazas;
da una ‘idda a s’atera viazas,
faghes Pasca e Nadale in logu istranzu.
A caldu e fritu girende t’iscazas
pro chimbe o ses iscudos de ‘alanzu,
dae s’incassu de set’oto sonazas
chi malamente pagant’ unu pranzu.
Sempre ramingu senza tenner pasu,
de una ‘idda a s’atera t’iferis
aboghinende inue totu colas:
«Discos nobos pro fagher su casu
e chie leat truddas e tazeris?
e palias de forru e de arzolas!

Il poeta conclude con quello che verosimilmente era parte del canto “Recipienti nuovi per fare il formaggio;/ chi compra scodelle e taglieri?/ pale per il forno e per l’aia!”

Lo scioglimento dell’enigma è ancora da venire o è già risolto negli studi dei grandi antropologi che hanno agito in Sardegna in passato? Per una nuova ricerca l’appello è lanciato.

(Linguistica sarda – 31.1.1997) MP

Commenti (3)

Sardos etiam, qui non Latii sunt…
3 #
emma
g@alice.it
82.61.36.173
Inviato il 04/06/2012 alle 15:41
Direi piuttosto russo 🙂
vado a vedere!

Sardos etiam, qui non Latii sunt…
2 #
giulia
chidicedonna.myblog.it
g@alice.it
87.4.242.192
Inviato il 03/06/2012 alle 20:57
urka, te manche el ciosoto!

Sardos etiam, qui non Latii sunt…
1 #
sandra
https://www.voicemama.com/
sandramurphy@gmail.com
173.234.142.4
Inviato il 03/06/2012 alle 17:19
I’d care to find out more details.

 

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