Lezioni condivise 79 – Rapporti tra lingua e cultura
31 Lug 2013 @ 11:59 PM
Aveva ragione Fernand Braudel a lamentare la scarsità di filosofi, direi di gente che pensa; qualità che non sarebbe male possedessero i politici, che razzolano un po’ come galline in confusione e hanno come unico scopo l’essere appunto politici, per loro quel che accade intorno è illogico, secondario… Ma loro sono “eletti” per cui non possiamo chiedere troppo. Potremmo però chiederlo almeno ai certi giornalisti dell’era berlusconiana, che per lavorare nel servizio pubblico possiedano almeno una laurea a pieni voti in filosofia, così, giusto per pensare con la propria testa e non con le emanazioni provenienti da palazzo Grazioli, modesta seconda casa, cui si prostrano ormai palesemente.
Pensavo a Braudel per ragioni meno basse, soprattutto riflettevo sulla fortuna che ho avuto a studiarlo. Si potrebbe dire che l’argomento che sto per trattare non rientri nel suo campo, non è così! Egli, in modo più concreto che teorico, è un rappresentante illustrissimo dell’interdisciplinarietà, concreto perché la mostra con la sua opera più che teorizzarla, per cui noi in essa leggiamo già palesemente, ciò che una teorizzazione relegherebbe nella vecchia concezione scientifica. Per questo a Braudel bastano poche parole: “…La vita è un tutto unico, che anche la storia deve esserlo e che non bisogna perdere di vista in nessuna occasione, neppure per un attimo, l’intrecciarsi infinito delle cause e delle conseguenze”.
La storia non sono solo fatti estrapolati dalla vita degli stati, ma è soprattutto la vita generale, momento per momento. Cosa che approfondita porta ad un progresso del marxismo, eliminando la tipologia classista, elitaria, per un’autogestione totale dell’umanità, non più sottomessa a elite di alcun tipo. “Se vogliamo studiare i fatti sociali, così complessi nel loro insieme, non serviamoci dunque di un sola fonte di luce”. La società non vista da una sola fonte o scienza, ma da tutte le scienze insieme. “Il nostro intento, invece è accendere tutte le luci contemporaneamente” (citazioni da F. Braudel, Storia, misura del mondo, Il Mulino, Bologna, 1998).
La linguistica è dunque funzionale alla storia e la storia alla linguistica e a tutto il resto, essa con le altre scienze contribuisce a illuminare la conoscenza.
Quanto accade per la formazione delle persone avviene anche per la lingua, che varia in base alle culture con le quali interferisce ed esse si esprimono attraverso la lingua locale, sia essa alloglotta, dialetto o vernacolo. Questo principio sostanziale è soggetto tuttavia a molte variabili, pensiamo all’imposizione di un dominio, di una cultura e di una lingua, dunque alle vicende storiche più disparate di alcuni popoli; ci sono situazioni estreme in cui delle lingue si sono estinte nel silenzio o nell’impotenza, nella negligenza o nell’ignoranza.
E’ la cultura popolare a modellare la lingua, la massa di persone che parlano e comunicano; il volgare alla fine prevale sulla lingua curiale e burocratica. E’ vero, oggi c’è la scuola, ci sono i mass media, ma hanno un po’ perso la loro “spinta propulsiva”, oggi che va ancora tanto lo slang brianzolo e i giornalisti parlano romanesco, con modalità più kitsch che culturali. E’ arduo districarsi in questa caotica babele ove sovente si confonde il genuino con il verosimile.
I bisogni del popolo modellano l’idioma, ne costituiscono i tipi, generano le differenziazioni semantiche, rendendo impossibili le traduzioni letterali con idiomi di culture materiali differenti.
Le pluralità lessicali sono indicative dell’importanza in quella cultura dell’oggetto da designare, gli atlanti linguistici sono un buono strumento anche per rilevare ciò, hanno dunque una valenza anche antropologica, storica e culturale.
Il pane è certamente un elemento fondamentale dell’alimentazione e della tradizione cultuale della Sardegna, infatti le varietà di pane e dunque le rispettive denominazioni, non hanno eguali nel mondo romanzo.
Uno stesso termine può designare diverse tipologie in diversi territori e viceversa una voce diversa può indicare lo stesso oggetto.
Alla Carta da musica, dell’italiano regionale di Sardegna, corrispondono su pani carasau, carasatu, sa pillonca, su pistoccu, su pan’e fresa, su póddine, fino al pani gutiau.
In ogni famiglia in passato aveva luogo almeno una panificazione settimanale. Il prodotto circolava a livello parentale e non c’era problema di varietà di linguaggio. Ora, con la piccola produzione industriale, vi è invece l’esigenza della denominazione unica che identifichi le diverse tipologie di pane, anche se potremo facilmente osservare che non è proprio così e non accade solo in Sardegna, visto che ad esempio il “cornetto” romano a Bologna lo chiamano “brioche” (!), la rosetta, michetta e via dicendo.
Il civraxu (pani de Seddori) in italiano regionale in su Cab’ e susu, viene chiamato spianata e ha, stante la diffusione regionale, un’infinità di varianti: chiàgliu, chiàlgiu, chiarju, chiarzu, chivalzu, chivarju, chivarzu, civàrgiu, crivalzu, crivaxu, crivazu, colacola, fruferedhu. Un riferimento italiano può essere il cruschèllo, ma solo riguardo alla qualità del grano, non per lavorazione e forma.
Sulla lavorazione del grano e la produzione del pane si potrebbe fare poesia, scrivere romanzi di alta letteratura, dovrò limitarmi invece ad essere il più possibile sintetico.
Dalla macinazione de su trigu (grano) si separano quattro parti di crusca/farina mediante setacciatura: prima si separa su póddini (crusca) più grosso dalla farina, successivamente si ottengono con sadatzus (setacci) più fini, su sceti, farina talmente leggera che vola (con la quale si fa il pane fine omonimo) e sa sìmbula (semola) che dà origine al cocoi, pane croccante; quel che rimane sul setaccio è su civraxu ed è una farra (farina) meno pregiata che dà origine al pane omonimo.
La fama del civraxu in Campidano ha ormai superato quello della farina che gli dà il nome, pertanto indica una forma di pane tondeggiante, non piatta, largo in media 30 cm, la cui farina non viene lavorata e pesa fino anche a tre kg.
Mentre il civraxu ha la sua tipica forma di costone collinare, su cocoi (pasta dura) cambia spesso forma ed è caratterizzato dai pitzicorrus croccanti (protuberanze puntute) di ampiezza variabile. Questo tipo di pane ispira la fantasia dei panificatori e se ne fanno di diverse tipologie e per varie occasioni: a tzichi (a forma di pulcino), a lóriga (circolare), cun ou (con uovo), a folla de fa (a fava), pintau, froriu, cocòi de Pasca, cocoiedhu afollitau (tutto pitzicorrus), stampau in mesu, de pitzus, in figura de pipia o àngiulu. Talvolta il cocoi, contiene il corpo in sceti, specie a Pasqua, ma Sceti viene definito un altro tipo di pane fine, di farina di prima scelta, che solitamente ha la forma di una grossa farfalla, lungo intorno a 25 cm e alto circa 10 cm., morbido. A volte le denominazioni si confondono con il cocoi e altri nomi, boledu, isete, in riferimento al fatto che si tratta della farina che vola mentre si setaccia o macina.
Un altro tipo di pane piuttosto diffuso in Sardegna è sa lada, pane morbido e fine, lavorato come il civraxu, stesso tipo di farina e lavorazione, la forma è quella di una baguette tondeggiante: si trovano sa lada a corpo unico, piuda, lúcida, stampada, lada cun casu, cun ollu, cun gerdas, ladixedha de parada, mustatzolu, costedha, agliola.
Vengono fatte anche con la forma del panino per antonomasia, ma piuttosto consistenti o anche con pezzature piccole farcite in vario modo.
Il gran numero di varianti deriva dalla vita agro/pastorale prevalentemente praticata in Sardegna fino a tempi ancora vicini a noi, sia per la grande consumazione di pane, sia per le scarse vie di comunicazione e dunque di interazione tra la gran massa di gente, alla conformazione del territorio che rende meno accessibili alcune zone, alle conseguenti diverse ondate e tipo di latinizzazione, alla presenza di diversi sostrati nelle varianti del sardo, al fenomeno di risardizzazione dei prestiti, una serie di variabili incalcolabili che hanno prodotto la lingua sarda di oggi, che in una situazione socio-economica mutata fa dei passi da gigante verso una koinè, tra le due o quattro varianti principali, con la missione per tutti della salvaguardia dei particolarismi grammaticali e lessicali.
Simile al discorso fatto per il pane è quello per i colori, anche più semplice: occorre considerare che il pane è un elemento vitale.
I colori non sono distinti allo stesso modo da tutti i popoli, che “tagliano” in modo diverso il continuum rappresentato, allo stato naturale, dalla gamma dell’iride. Per gli Antichi Romani caeruleus valeva per i colori che vanno dal verde-azzurro fino al blu e quasi al nero; purpureus indicava i colori dal rosso al viola e perfino l’azzurro. Dunque macrocolori che in antichità si rifletterono anche sul sardo. Il rosso nel sardo antico era un macrorosso che spaziava dal rosa all’arancione La gran parte dei colori in sardo è riferito a qualche elemento esistente in natura, un fiore, un frutto (cabori de arrosa, cabori de aràngiu, cabori de cinixu, de castàngia).
In passato vi era una scala cromatica diversa, più dettagliata e comunque variabile da cultura a cultura anche nella stessa Sardegna.
Tento uno schema della possibile differenza percettiva, accusata dalla lingua, tra intuitività dei colori nel sardo e nell’italiano, partendo dalla base dei colori dell’iride:
Per gli uccelli il discorso torna farsi complesso per lo stesso motivo suddetto, la diffusione della caccia e la necessità di stabilire delle denominazioni, che sono talmente variegate, anche per l’incisività in questo caso dell’idioletto, riscontrabile negli atlanti linguistici, frutto di interviste personali.
Dati che andranno poi elaborati dal linguista per dare valore ai vari termini.
La denominazione degli uccelli in parte si fonde con il nome dei colori.

Pettirosso = scrax(i)u grogu; fenicottero = ghente arrùbia; merlo = meurra, bicu aràngiu
Le pluralità lessicali ci sono quando la cosa da designare è importante in quella cultura, gli atlanti linguistici sono un buono strumento anche per rilevare ciò, hanno dunque un’importante valenza antropologica, storica e culturale.
(Linguistica sarda – 21.2.1997) MP

Commenti (3)
Caboris, prexoris…
3 #
vitty
vitty.blog.tiscali.it
vitty.n@tiscali.it
84.223.32.203
Inviato il 12/08/2013 alle 14:43
Quante notizie interessanti sul pane! A pensarci qualcuno le potrebbe usare per scriverci una bella tesi sulla nutrizione. Complimenti,bravo come sempre!!! 😉
Caboris, prexoris…
2 #
giulia
chidicedonna.myblog.it
g@alice.it
82.60.188.164
Inviato il 05/08/2013 alle 00:20
magna un toco de pan e stà sito… che co tutti sti pani non capiso pì niente!
Ti sfido a fare un racconto sul pane. Di 10 pagine… 🙂
alla decima pagina sono già cotta…
(tutta colpa del forno che con questo caldo mi fa abbandonare ogni mia volontà)
Caboris, prexoris…
1 #
jahira
xjahirax.wordpress.com
jahira@virgilio.it
79.25.17.189
Inviato il 25/07/2013 alle 15:06
la bibbia? E perche’ no 🙂 l’ho letta anche io, un po’ pallosetta in alcuni punti 🙂 ma sicuramente non pallosa come il corano 🙂
