MAVITELLU!

Lezioni condivise 83 – Pisca a su pa(l)u

30 Nov 2013 @ 11:59 PM

Lo studio della linguistica è affascinante sotto tanti punti di vista, uno di questi è certamente il rivelarsi di un magico mondo sconosciuto, percepire di possedere la chiave di un enigma che è la babele di linguaggi formatisi nel mondo, con tutti i loro significati, anche sociali, scoprire insospettate parentele, vedere come in un sogno masse di genti che si spostano e contaminano i loro linguaggi, ne formano di nuovi.

Dietro una lingua c’è sempre la storia di un popolo, una sorta di DNA che ha a che fare con il tempo, lo spazio, gli accadimenti, le situazioni, le persone, i popoli e la loro cultura e tante altre variabili, la sociolinguistica ha il suo fascino, ma lo ha anche l’idioletto, l’idioma di uno solo.

E’ fantastico scoprire dietro il lavorio del tempo come una o più parole, modificate dalla fonetica dei parlanti e da un’altra miriade di fenomeni, possano avere un’origine comune, o viceversa scoprire come una stessa parola possa cambiare significato nel tempo e nello spazio, perdendo del tutto quello originario. Ma ci sono mille altre curiosità piacevoli e interessanti nella magia linguistica.

Tra le variabili sociolinguistiche cui discorsivamente si è fatto cenno, è degna di interesse quella diafasica (dal greco dia phasis, mediante il dire), che riguarda i diversi contesti in cui si trova a esprimersi il parlante, dunque i diversi registri linguistici che si adoperano con il variare delle situazioni: in famiglia, a scuola, in ufficio, nei posti di lavoro e così via. Questa variabile comprende anche i linguaggi specifici che vengono utilizzati in certi ambiti e in particolari tipi di lavoro, quindi linguaggi tecnici, come possono essere quello tra medici, il linguaggio sportivo, culinario o i vari gerghi tipici di certe professioni o condizioni, come ad esempio quello giovanile.

Muta ad esempio la denominazione di parti del corpo o di organi, a seconda vengano espresse da una persona comune o da un medico.

Occorre dunque analizzare il linguaggio nel suo contesto d’uso; ergo, un professore universitario, si suppone non usi lo stesso registro linguistico durante una lezione e nella domus con i propri figli.

Nella lessicologia sarda abbiamo ad esempio i gerghi tecnici relativi ai ramai (Isili), all’uccellagione o alla pesca, in particolare a quella;

Soffermiamoci su alcune curiosità comuni agli ambienti della pesca storicamente esercitata negli stagni di Cabras e Santa Giusta.

Certe terminologie vengono usate solo nella peschiera, che è uno sbarramento apribile e chiudibile a seconda delle esigenze, costruito dall’uomo per intrappolare i pesci. A Cabras queste chiusure sono fatte ancora con le canne (cannitzadas), come avveniva nel medioevo.

Notiamo come intervengano parti del corpo umano nella designazione della realtà lavorativa.

Sa buca = bocca, rappresenta l’apertura della rete; sa conca = testa, sono le estremità apicali degli attrezzi che vengono adoperati.

C’è da dire che questo linguaggio è anche un po’ un codice segreto di cui gli stessi pescatori sono gelosi, pertanto ci troviamo spesso di fronte a espressioni enigmatiche: ad esempio, per sa cora de is bìddius (letteralmente: il ruscello o scia degli ombelichi) dobbiamo avanzare due ipotesi. Stabilito che is bìddius, nella fattispecie, sono i lembi di muscolo addominale del muggine, che si estraggono con la sacca delle ovaie, verosimilmente, per quanto misteriosa, l’espressione è riferita alla circolazione del muggine stesso.

Ma l’ambito più interessante di questo slang, riguarda i comandi che i pescatori si scambiano nel corso della pesca, comandi che vengono urlati dal puperi (uomo di poppa), recepiti ed eseguiti dall’equipaggio. Questi ordini, incomprensibili ai profani, in quanto pressoché privi di alcun riferimento contingente, rappresentano la sfida per il linguista, riuscire a trovare l’etimologia dei termini apparentemente privi di significato o che lo hanno mutato, e non sempre è possibile. Molto, ad esempio, si deve fare ancora per decifrare i pochi residui di sardo nuragico, comunque prelatino, sopravvissuto e nascosto nei toponimi e in pochi altri vocaboli.

Nella pesca a su pau (palu), che avveniva con la sciabica (una grande rete a sacco tirata a strascico), da poppa, come già detto, partivano tre ordini, come riportato nello schema:

Cun deus (con Dio) rappresenta in sardo una forma di saluto, andiamo con Dio; questa formula avvisa che la sciabica è stata calata e che la pesca può avere inizio con la caba (discesa), ovvero il giro della barca che trascina un’ala della sciabica e tende a circondare i pesci, cioè a formare una barriera tra loro e l’altra ala della sciabica.

Mavitellu! è il secondo ordine che su puperi urla, e al quale corrisponde la chiusura dell’arco della caba, dunque l’avvio della chiusura della sciabica, ovvero il congiungimento tra le due ali, con in mezzo il pesce.

A su pau! (al palo) significa che l’arco della caba è chiuso e invertendo la direzione di voga, si torna al punto di partenza, indicato da un palo.

Il termine “mavitellu” si è appurato provenire dai dialetti meridionali, mutuato nell’uso dei pescatori sardi per contatto con quelli con più grande tradizione del napoletano, Calabria e Sicilia. E’ dunque un prestito desemantizzato, che ha assunto un significato diverso da quello originario che designava l’ala della sciabica (mavitiello).

Adesso che la pesca a su pau sta cadendo in disuso, potrebbero perdersi anche i termini legati ad essa. Molti di essi sono usati nella pesca fin dal tempo dei fenici, una tradizione consolidata negli stagni e dove essa viene storicamente praticata. Termini a volte non documentati: la dedizione dei sardi per la pesca è relativamente tarda. La ricerca sul campo e gli atlanti linguistici rappresentano la salvezza anche per queste forme di patrimonio lessicologico.

(Linguistica sarda – 28.2.1997) MP

Commenti (1)

Mavitellu!!!
1 #
vitty
vitty.n@tiscali.it
84.223.34.103
Inviato il 11/01/2014 alle 22:35
Caro Indian non si può non restare contagiati dal tuo entusiasmo nel leggere questo interessantissimo post.
Mi ha emozionato il paragone sulla ricerca della rivoluzione francese (che adoro!!!) e pensare di “ritrovarsi accanto Danton, Marat, Robespierre e Sanjust insieme.”
Per me sarebbe stata una ubriacatura di emozione, altro che “piccole cose! ”
Questo comunque mi ha fatto capire quello che devi aver provato nel trovarti di fronte un artista come Pinuccio Sciola.
Seguendo il percorso della sua carriera artistica,si capisce il grande amore che nutre per la sua Sardegna. L’ha abbellita ( se mai ce ne fosse stato bisogno,di certo l’ha resa più preziosa ) con degli splendidi murales ( grazie a Google ho potuto ammirarli ) facendo diventare San Sperate,suo paese natale,un museo a cielo aperto.
Anch’io anni fa,in un viaggio indimenticabile in Sardegna, ho avuto la fortuna di ammirare dei murales. Rimasi affascinata guardando quei dipinti che raccontavano storie di vita vera. Non ero dalle parti di Cagliari,perciò dubito che l’autore fosse Sciola. Però ti assicuro erano veramente belli!!
Quanto mi sarebbe piaciuto conoscere l’autore!
La scoperta che nell’isola di Rapa Nui sia stato trovato una costruzione simile a un nuraghe mi ha lasciato senza fiato! Mi ha indignato che non siano stati fatti studi più approfonditi per saperne di più. Finalmente c’era l’occasione per scoprire le origini di quei manufatti ,per mettere insieme i tasselli di una storia tanto affascinante quanto misteriosa . Non è possibile che abbiano ignorato una simile scoperta.
L’indolenza non credo sia riservata solo alla Sardegna.
(Un’isola peraltro che è impossibile non amare. Io vorrei tanto vederla in inverno. Drve essere magnifica! )
Ma temo sia un male comune che opprime tutta l’Italia. Basta vedere come vengono lasciati andare le grandi zone archeologiche…
Ma le emozioni più forti le ho provate nel sentire le pietre che suonano! C’è come una magia dentro quelle pietre che al tocco dell’artista rispondono con dolci melodie.
Come restare indifferenti leggendo le parole dell’artista?
“Caro San Francesco,
quando tu parlavi all’acqua, ai fiori, alle stelle…
la pietra in silenzio stava ad ascoltare.
Adesso, grazie all’intuizione di un artista e alla tecnologia,
la pietra ti farà ascoltare la sua voce, i suoi suoni…
Pinuccio Sciola”
Carlo Levi soleva dire che le parole sono come pietre. ora dopo aver scoperto,grazie a te,le pietre di Sciola,posso dire che le pietre parlano.
Grazie indian per avermi portato in questo mondo magico dell’arte. Continuerò a seguirlo. Un caro saluto, vitty.  (Il commento è evidentemente riferito all’articolo successivo, ndr)

SARDOS ETIAM, QUI NON LATII SUNT…

Lezioni condivise 65 – Linguistica sarda

 31 Mag 2012 @ 7:48 AM

E’ noto che i romani, man mano che ampliavano il loro impero, imponevano anche la propria lingua, il latino. Immaginando quella vasta area linguistica, non dobbiamo pensare al radicamento di un idioma perfettamente identico alla lingua di Roma, ma comunque variabilmente uniforme, giacché si sovrapponeva alle lingue originarie, che in qualche modo lo contaminavano, generando territorio per territorio un superstrato linguistico, oltre a costituire un substrato. Un altro elemento di differenziazione – giacché l’impero romano non sorse di colpo con la bacchetta magica, ma si ampliò o si restrinse nell’arco di undici secoli (quello d’occidente) – è costituito dalle differenti ondate linguistiche di un latino mutato rispetto a conquiste precedenti (basta anche un solo secolo perché una lingua subisca dei cambiamenti significativi) e dunque si presentava nel tempo, ai diversi popoli assoggettati, in forme, soprattutto lessicali, nuove.

Un fenomeno molto più rilevante si verificò alla caduta dell’impero, quando con la formazione di nuovi stati o domini, molto più frammentati, sul latino si sovrapposero con modalità differenti da luogo a luogo, nuovi idiomi o in ogni caso, non essendovi più un governo centrale unitario, la lingua prese una strada differente da stato a stato, da territorio a territorio, dando vita alle lingue romanze (o neolatine), imparentate ma diverse, anche questa volta con difformità spazio-temporali, mutazioni e contro mutazioni, fino alla situazione attuale.

Tuttavia, parlare di situazione attuale è più facile da dire che da spiegare, infatti, esagerando, potremmo quasi dire che per ogni linguista vi è una ricostruzione distinta del contesto, sebbene in particolari che possono anche sfuggire a una ricostruzione generale.

Possiamo dunque prudentemente affermare che esistono circa 26 lingue romanze, suddivise in due domini principali, orientale e occidentale, con aree di influenza mista.

Le lingue romanze più note sono lo spagnolo (castigliano), il francese (parigino, d’oil), il rumeno, l’italiano (fiorentino e varianti meridionali), il portoghese, l’occitano (provenzale, lingua d’oc), galloromanzo, franco provenzale, catalano, sardo, guascone, veneto (antico, pressoché estinto), asturiano, corso, friulano, ladino, romancio, istrioto, dalmatico (estinto). 

L’elenco non è completo, essendovi idiomi minori, parlati ancora solo in piccole comunità, tuttavia è redatto secondo le norme della Carta europea per le lingue minoritarie, che riconosce tali quelle “lingue che non sono dialetti della lingua ufficiale dello Stato”.

La lingua sarda è ritenuta da molti studiosi la più conservativa tra le lingue neolatine. Giova ricordare che essa è basata su un sostrato prelatino (che potremmo definire genericamente nuragico), già ampiamente tagliato dai contatti avuti con vari altri popoli, dai fenici ai cartaginesi. Inutile dire, dato che si tratta di epoche remote, che non è ipotizzabile l’esistenza di un idioma unico in tutta la grande isola (un’idea efficace può darla la lettura di Passavamo sulla terra leggeri di Enrico Atzeni), soggetta dalla sua stessa conformazione e storia, a sovrapposizioni linguistiche differenti.

La variabilità areale del sardo è stata una costante anche nelle epoche successive, ne possiamo ancora oggi osservare l’esistenza dovuta ai diversi contatti linguistici da zona a zona.

Dall’introduzione della lingua italiana, il sardo ha agito sulla stessa dando luogo all’italiano regionale di Sardegna, come è avvenuto nell’intero dominio di questa lingua (compreso il fiorentino da cui ha origine) e agisce sulla sintassi, la morfologia, il lessico e tutta una serie di fenomeni di cui do solo un’idea allo scopo di “intuire” il resto.

Una delle interferenze più note del sardo sull’italiano è la posposizione del verbo.
es.: la mela vuoi? risposta: la mela voglio. In Elias Portolu: “Ragione ho. Si o no?”
Vincere sempre vuoi! Vino buono ha zio Portolu (con il complemento in posizione iniziale).
Aggettivo + che + verbo: Antipatica che sei! Che buono che è!
Verbo essere: Andati siamo. Piovendo è. (Regionale di Sicilia: vero è).
L’argomento è piuttosto complesso e rimando a L’italiano regionale della Sardegna della prof. Ines Loi Corvetto (1983).

Un altro aspetto interessante è quello delle varianti di tipo sociale: i gerghi. Vi è ad esempio il gergo della malavita, i gerghi di mestiere (venditori ambulanti), quelli criptici, segni di identità, distintivi anche in pubblico. O l’antico furbesco italiano (sorta di esercizio letterario con tanto di codice manoscritto di un vocabolarietto di voci furbesche. Buiose = finestre; bistolfo = prete, polverosa = via… Il gergo dei muratori, che è in realtà un linguaggio tecnico. Quello studentesco invece è un codice di repertorio, linguaggio giovanile.

In Sardegna è interessante il gergo dei ramai di Isili, noto tra i gremi dei ferrai e tutelato gelosamente, quasi segreto. Per essere accolti nel gremio occorreva dare prove d’arte ed essere incartati (diplomati) presso un artigiano. I ramai erano artigiani e rivenditori, il gergo era la lingua di questi ultimi.

Da studi più accurati si è potuto dedurre che il “gergo”, oggi in via di estinzione a causa dei nuovi usi e abitudini commerciali, era originariamente il romanisku o pavela romaniska o arbareska (in sardo: arromanisca), in quanto i primi ramai erano di origine zingara. La lingua è poi venuta a contatto con il sardo, con il giudeo-spagnolo (judezmo) dei sefarditi – espulsi da Spagna e Portogallo nel 1492 e transitati per la Sardegna – e con altri gerghi: della malavita, del furbesco e vari altri dei calderai. Dalla sua analisi emergono anche termini albanesi e neogreci.

Alcuni esempi:
Rossinu = Oro (concezione del colore legato alla cultura. Il rosso arcaicamente copriva anche il colori bruni – macrorosso -, opposti al bianco).
Allusca (osserva), su trotònniu est ispissau (il caldaio è rotto).
Est iscalli assai vi sa strangedda (è molto rovinato il manico)
Sedici, l’aribari (asiberi/asibari) at allusa (si, io l’ho visto)
Safrongiat l’aribari, voi mucedda (me ne occupo io, tu taci)
Su cabeddari s’in c’est onciau (il padrone se n’è andato)
Su trotonniu cubelle pigedda (non ha preso il caldaio)
Fai fagionnia cun se giantedda ca su daddu est assai cresiau (dati da fare con la figlia perché il padre è molto ubriaco).
Venditori ambulanti più poveri:
Es càllia cubelli fuschieri nemeneu (nemenen) po trotonius de rossinu (E’ bella ma non fa l’amore neanche per un caldaio d’oro)
Chi m’afinat tiaus s’idd’afinu (se mi danno formaggio glielo do)
Po trint’aiustra, sedici afinari (per trenta libbre, sì dallo)
Afrogia po cresia e po sgnenari (sgranari) (tratta in cambio di vino e di grano)
Sedici, ochieri, voi (vai) calandrinu (si, somaro, tu somaro)
Lessico malavita:
Trionfa = carne, rapa = rapina
Suspu (gergo, lingua segreta con meccanismi al contrario, o introducendo sillabe, suffissi o prefissi, come “ma”, per renderlo incomprensibile).

Il tema mi porta a una suggestione tutta mia, a diversi anni fa, quando poltrivo a letto d’estate o in vacanza, e di buon mattino, qualche volta all’anno, si sentiva per la strada un canto struggente di venditori; non ricordo di averli mai visti e quando mi decisi a registrarli, non passarono più. Ne passavano di diversi tipi, verdurai, pescivendoli, l’arrotino, castangiàius, ma solo questi adottavano un canto. Vendevano turras e talleris, insieme a tanto altro, ma i mestoli e i taglieri, la facevano da padroni, insieme a is istrexus de fenu, cioè recipenti di fieno (scateddus – cestini -, cibirus – setacci -, crobis – ceste -, e via dicendo).

Da notare la testimonianza di Giuseppe Concas (www.nominis.net):
Ai primi di settembre, di buon mattino, le strade dei paesi si riempivano di cantilene e nenie melodiose (anche il canto aveva la sua importanza); e tu vedevi quegli uomini carichi di canestri e cesti di vimini e di canne, con le sacche di orbace (is bértulas) piene di mestoli e cucchiai di legno: “E tùrras e talléris e palas de forru… e cullèras. Cullèras bollit, sa mèri? Comporài cilìrus, scartèddus, crobis e canistèddas… dda pigat sa crobèdda…sa mèri”? (…)
Il “canto” dei rivenditori de “su stréxu de fénu e turras e talleris e palas de forru” non si sente più e sembrano passati secoli, anche se in verità sono trascorsi pochi decenni. Ancora oggi, comunque, nelle bancarelle delle sagre paesane è possibile ammirare i “capolavori” di quegli artisti estemporanei.
Documento interessante anche quello di Mario Virdis, nel suo blog http://amicomario.blogspot.com/, post “Turras e Talleris: gli scambi senza danaro nel dopoguerra, il ‘baratto’… di necessità”: “Questo bando era costituito da una nenia, recitata in modo quasi ‘gridato’ che reclamizzava i prodotti in vendita. La ricordo ancora sia nell’intonazione che nelle parole: E si ettada su bandu! Tenimos turras, talleris, pajias de forru e culleras!”

La poesia S’ambulante tonaresu di Peppino Mereu,
Cun d’unu cadditeddu feu e lanzu
sa vida tua a istentu la trazas;
da una ‘idda a s’atera viazas,
faghes Pasca e Nadale in logu istranzu.
A caldu e fritu girende t’iscazas
pro chimbe o ses iscudos de ‘alanzu,
dae s’incassu de set’oto sonazas
chi malamente pagant’ unu pranzu.
Sempre ramingu senza tenner pasu,
de una ‘idda a s’atera t’iferis
aboghinende inue totu colas:
«Discos nobos pro fagher su casu
e chie leat truddas e tazeris?
e palias de forru e de arzolas!

Il poeta conclude con quello che verosimilmente era parte del canto “Recipienti nuovi per fare il formaggio;/ chi compra scodelle e taglieri?/ pale per il forno e per l’aia!”

Lo scioglimento dell’enigma è ancora da venire o è già risolto negli studi dei grandi antropologi che hanno agito in Sardegna in passato? Per una nuova ricerca l’appello è lanciato.

(Linguistica sarda – 31.1.1997) MP

Commenti (3)

Sardos etiam, qui non Latii sunt…
3 #
emma
g@alice.it
82.61.36.173
Inviato il 04/06/2012 alle 15:41
Direi piuttosto russo 🙂
vado a vedere!

Sardos etiam, qui non Latii sunt…
2 #
giulia
chidicedonna.myblog.it
g@alice.it
87.4.242.192
Inviato il 03/06/2012 alle 20:57
urka, te manche el ciosoto!

Sardos etiam, qui non Latii sunt…
1 #
sandra
https://www.voicemama.com/
sandramurphy@gmail.com
173.234.142.4
Inviato il 03/06/2012 alle 17:19
I’d care to find out more details.

 

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