IL SEGRETO DI PULCINELLA

Lezioni condivise 96 – Leopardi visto da Ungaretti

31 Gen 2015 @ 8:00 PM

Scrivere del Pensiero è sempre un grosso rischio, se poi si tratta di Pensiero controverso, è come andarsela a cercare, ma devo affrontare questo argomento, seppure non troppo direttamente. Da qualche parte avrò detto e scritto del mio rapporto con la filosofia, o per meglio dire con un certo tipo di filosofi, per questo sento la necessità di definire alcuni semplici corollari preliminari, forse banali, ma utili come premessa, come base per un discorso non troppo complesso.

Ogni animale “pensa” e tra questi l’uomo, che in più scrive, nelle sue lingue. Non tutti gli uomini che pensano scrivono i loro pensieri, ne patisce di sicuro la filosofia (che è amore per la sapienza, ma nel sentire comune anche studio del pensiero). Se a qualcuno venisse in mente di raccogliere il pensiero degli operai nelle fabbriche su varie materie, o dei lavoratori comuni, degli artigiani, dei commercianti, delle badanti e via dicendo, non so in quale branca del sapere sarebbero inseriti i loro pensieri, probabilmente in qualche branca della sociologia, peraltro è già cosa fatta.

Un primo “sospetto” è dunque che si sia studiato fino ad ora solo il pensiero di alcuni privilegiati, questo di sicuro fino al Novecento o sbilanciandomi potrei dire fino alla Rivoluzione francese, ma non è necessario ora che sia così preciso. D’altra parte non si possono trattare tutti i Filosofi alla stessa stregua, tra loro troviamo anche chi ci piace, chi la pensa come noi in tutto o in parte… e non sarebbe neppure giusto prendersela con chi fa altre scelte. La mia è solo una riflessione, una critica, libertà legittima come quella di pensiero.

Tuttavia non posso fare a meno di dirla grossa: alcuni, forse soprattutto tra gli esistenzialisti, devono avere avuto troppo tempo libero…

Non vorrei fare attacchi troppo diretti, alcune biografie mi spiazzano. Tutto ha una ragione ed è più giusto elaborare questa che perdersi nei pensieri, magari lontani dalla realtà. Accade infatti che nel nome di questo o quello, suo malgrado, antico, moderno o contemporaneo, si compiano olocausti, stragi o delitti bestiali.

Atterro, in qualche modo, sulla lettura di Leopardi da parte di Ungaretti. Potrebbe sembrare qualcosa di abbastanza strano, vista la premessa, ma a volte ci sono dei motivi particolari anche per fare le cose più comuni.

La prima impressione è che non vi siano grandi cose in comune tra i due, anzi mi si presentano alcune antitesi, ma si può scavare, si possono riferire altre opinioni.

La prima è quella dello stesso Ungaretti, che si sente legato a Leopardi dalla teoria del Segreto. La poesia nasconderebbe il segreto del poeta, quel segreto che egli vorrebbe condividere, rivelare, ma lo fa costruendovi attorno il mistero, lo rivela in modo meraviglioso, prodigioso, servendosi di una forma che stupisca, che faccia effetto, sia spettacolare.

Questo è abbastanza vero per diversi stili poetici, fino a un certo punto anche per la poesia di Ungaretti, mentre avrei qualche difficoltà a riconoscere in tale descrizione la poesia di Leopardi, anche se il concetto di meraviglioso può essere soggettivo, ma non se ci si riferisce al barocco come fa esplicitamente il lucchese.

La realtà è che lui si barcamena in un bailamme stilistico tra minimalismo, frammentismo, espressionismo, simbolismo, poi ermetismo, neoclassicismo, forse anche tracce di futurismo e barocco, peraltro conditi da condizionamenti ambientali, prima l’esilio e la guerra, poi il fascismo e le vicende personali. Ne è prova anche il cambiamento di atteggiamento nei confronti del passato, della memoria, che prima gli consentiva di muoversi nel tempo a suo piacimento, fino a tornare all’innocenza del bimbo, poi viene in qualche modo rinnegata ne “Il sentimento del tempo”.

Egli si è creato propri riferimenti tra i “cultori della segretezza”, ne ha tratto il proprio linguaggio poetico e la scelta della parola.

Le comunanze sono un po’ forzate, come quella che legherebbe “L’Allegria di naufragi” e “…il naufragar m’è dolce in questo mare”. Mentre ne “Il sentimento de tempo” ad unirli c’è un pessimismo, più umano in Leopardi, portato all’estremo in Ungaretti.

Questi ha scritto saggi, dispensato lezioni e conferenze sul poeta di Recanati, anche in Brasile. Lo scopre come poeta della decadenza, ma anche dell’innocenza, che attribuisce anche a se stesso, e ascrive il pessimismo del marchigiano alla perdita della fede cristiana. L’uomo nasce felice, ma viene corrotto dalla storia, pertanto per esserlo ancora deve mentire a se stesso “io nel pensier mi fingo… e il naufragar m’è dolce…”, un moto ironico dalla natura circostante, conosciuta, in fusione spaziotemporale; versi accostati al senso di infinito in “M’illumino d’immenso”, che tuttavia ha un’altra storia: tutto ciò che al risveglio concede il disagio materiale tangibile e l’illogicità di una guerra.

Ungaretti passa poi dai contenuti alla poetica, in polemica con La Ronda (apparentemente su posizioni comuni, ma più classicistiche). Egli guardava ai classici, un po’ per le direttive del regime e si inventava l’innovazione partendo da essi.

Ciò che rendeva poetico Leopardi era la ricerca lessicale, la lingua arcaica, prima che letteraria, scolastica e colta, e se tale, non doveva apparirlo, ma essere moderna e arcaica allo stesso tempo.

Eszter Rónaky, ungherese, docente presso l’Università di Trieste, ha rilevato quella sorta di “rivalutazione” del barocco da parte del toscano, che a suo avviso è anche del Leopardi, nella ricerca di quello che chiama il “vocabolo magico”, teso a provocare meraviglia. Ma la prof è perplessa, perché è noto che il barocco esasperava le regole fino a snaturare la poesia. E’ stato travisato il concetto per l’eccessiva importanza alla forma fine a se stessa, forse per giustificare “Il dolore”, in cui è stato visto una sorta di neobarocco.

Quali sarebbero i vocaboli magici del Leopardi per Ungaretti non è dato sapere: forse “la donzelletta”, “i veroni del paterno ostello” o “i sempiterni calli”? Che la diacronia linguistica sia talmente mutata in così poco tempo? Che Ungaretti dominasse un italiano manzoniano, mentre ai nostri tempi, con la rivincita dei dialetti e il diritto allo studio, quei termini non appaiono così fuori dal normale? Qual è dunque questo “inesauribile segreto”: la normale mutazione di registri linguistici nel tempo o il silenzioso dimenarsi tra le imposizioni stilistiche del fascismo e il canto libero? O è appunto un mistero irrisolvibile che è memoria e rivoluzione allo stesso tempo.

La formazione letteraria di Ungaretti contempla poeti dello spessore di Rimbaud, Mallarmé, Apollinaire, Leopardi e Petrarca e frequentazioni più diffuse con italiani come Palazzeschi, Soffici, Papini e le loro riviste (ove ha esercitato anche la funzione di critico), la considerazione di tutta la letteratura a partire dal Duecento, in cerca forse di risposte, come nella vita di una dimora, dato che si sentiva costantemente in esilio, identificandosi forse con la storia drammatica dell’amico Moammed Sceab.

Rónaky lo spiega con l’esigenza di aderire a qualcosa, avere una patria, una letteratura, una storia, anche per la sua deriva prima militarista, poi nazionalista. Da un punto di vista più letterario, l’importanza della “parola”, della ricerca linguistica che lui trova in Leopardi, nelle sue espressioni arcaiche, è il trait d’union con il linguaggio del Petrarca, con una lingua remota, ma d’arte, dunque elegante e per questo moderna.

Vi è dunque una linea Petrarca-Leopardi-Ungaretti? A mio avviso essa è tale solo nelle aspirazioni di quest’ultimo. Diverso è trovare in questa catena un senso di aderenza, di legame, di eredità perenne, il naturale quid della poesia.

Un’altra affinità con Leopardi, egli sembra trovarla nel “rapporto” con Nietzsche e precisamente nelle tesi sul nulla e sull’annientamento. Il tedesco condivide la visione di Leopardi secondo cui l’illusione dell’arte è condizione per la sopravvivenza; contro il mondo crudele è necessaria la menzogna per vivere. Per questo l’uomo è mentitore e artista per natura. Ma Nietzsche si spinge fino al superuomo, colui che sa godere della vita nel bene e nel male e concilia il piacere di vivere anche con quello dell’annientamento. Leopardi esclude questo piacere, ritenendo che chi è cosciente del nulla può avere solo il piacere della capacità di percepire il proprio destino.

Di Leopardi Nietzsche stimava pessimismo e nichilismo. Riduceva un po’ tutto al suo pensiero negativo. Tolstoj disse che era un folle megalomane. Dal darwinismo si inventò l’idea di una selezione anche nella società umana, ove avrebbero prevalso gli individui portati alla supremazia per la loro “volontà di potenza”, criticando l’ottimismo progressista di Darwin. Teorie pericolose che sappiamo poi di chi vennero raccolte… Peccato che per dimostrare l’inconsistenza delle teorie di Nietzsche ci siano voluti Hitler, Mussolini e i loro tanti replicanti, aspiranti “superuomini”.

(Letteratura italiana moderna e contemporanea  – 11.4.1997) MP

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IL SEGRETO DI PULCINELLA
2 #
Alicia
thebeautifulbrain.com/2013/04/what-we-talk-about-…
kristagoldschmidt@gmail.com
104.143.23.189
Inviato il 08/10/2015 alle 15:24
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L’APPIATTIMENTO NEOCLASSICISTA MINCULPOPPISTA

Lezioni condivise 88 – Il sentimento del tempo

30 Apr 2014 @ 11:59 PM 

Le cose peggiori che era necessario dire su Ungaretti sono state dette, forse anche le migliori possibili, per cui esaminando la sua produzione di regime e i cambiamenti di stile netti dall’Allegria al Sentimento del tempo, inutile farsi tanti scrupoli.

Il suo appiattimento stilistico rispetto alla prima produzione e le scelte difformi dalla sua biografia precedente alla grande guerra, lasciano perplessi e non c’è modo di trovargli giustificazioni.

La nuova “poetica” era imposta dalla dittatura, ovvero dalle sue ramificazioni minculpoppiste, e Il Sentimento del tempo – sua seconda silloge del 1933/36, 70 poesie – ne è il frutto. E’ vero che non fu il solo ad aderire al regime, ma i più hanno l’attenuante della giovane età e soprattutto l’aver preso a un certo punto le distanze dal fascismo, cosa che il “nostro”, come abbiamo già detto, non ha mai fatto, anzi ne è stato per certi versi un soccorritore, ha cercato di mettere tutto e tutti sullo stesso piano, come fa ancora la destra, comprese le zone grigie del PD.

Il sentimento del tempo è molto diversa dall’Allegria, per stile e contenuti. La forma ripristina la metrica classica, punteggiatura, aggettivi, uso regolare della sintassi, ricercatezza delle parole, la retorica, l’allusione, polivalenza, ermetismo, spazi tra i versi, strofe brevi a rima libera e vari tecnicismi arcaici.

L ’Allegria invece si basa sull’assenza di metrica, di punteggiatura, di aggettivi, il verso era libero, la sintassi trascurata, le parole concrete e comuni, i versi essenziali senza figure retoriche, solo similitudini; il linguaggio scarno e intenso, i versi franti, spezzettati, versi-parola, versi aggressivi.

La guerra ha cambiato tante cose e principalmente ha portato il fascismo, ragione politica del cambiamento del lucchese, uomo ubbidiente al duce, al punto da non vedere il liberticidio che il dittatore aveva prodotto in Italia. Ungaretti era perfettamente integrato nell’ideologia fascista, la sua libertà era solo metafisica.

Le altre ragioni che vengono sollevate per un cambiamento simile, non sono a mio avviso determinanti: quelle personali – il trasferimento a Roma, il matrimonio con Jeanne Dupoix, la paternità, la morte della madre, il disagio economico; culturali – la collaborazione con La Ronda di Vincenzo Cardarelli e il ritorno all’ordine anche metrico, al nuovo classicismo, diretta conseguenza della stretta del regime, che dettava le sue leggi su tutto (quelli di “Ragioni di una poesia” del 1949 sono pretesti, tentativi di dare una motivazione “poetica” al cambiamento, in contraddizione con la passata vicinanza al simbolismo francese); religiosi – la “conversione” al cattolicesimo (convertirsi e aderire al fascismo è una bella logica!)

Semmai gli elementi non politici possono aver inciso sui contenuti: l’osservazione del paesaggio romano, d’estate, paragonato al barocco (che sbriciola e ricostruisce), un rapporto tra vita e morte; il sole, visto nella sua funzione implacabile, violenta, accostato a una “libertà” che rende prigionieri.

In questo senso egli stesso individua tre momenti della raccolta: il paesaggio come profondità storica; la civiltà minacciata di morte e dunque il destino dell’uomo in relazione con l ’eterno; l’invecchiamento, il perire della carne.

L’opera consta di sette sezioni: “Prime” (1919-1924), ancora vicina all’Allegria;  “La fine di Crono” (1925-1931), pre-ermetiche, già con elementi neoclassici: paesaggi estivi e pensieri metafisici, poesie oscure come L’isola e Fine; “Sogni e Accordi ” (1927-1929), paesaggi, ambiente, ove l’uomo è Stanca ombra nella luce polverosa; “Leggende” (1929-1935), poesie dedicate a persone care morte, ermetiche e tradizionali; “Inni” (1928-1932), riflessione sulla condizione umana, una sorta di rapporto dialettico con Dio, cui si chiede ragione dei tormenti dell’umanità, riconoscendo infine la natura malvagia degli uomini.

Gli “Inni” comprendono La PietàCaino e La Preghiera, considerate le migliori della raccolta, si tratta di una trilogia con versi ermetici e polisemantici, scritti durante la conversione religiosa.

La pietà è ritenuta la migliore, esprime la disperazione dei suoi primi 40 anni. Reca epigrafi, domande retoriche. Non ci vedo livelli ieratici alti e tanto meno l’accostamento ai salmi, azzardati da alcuni critici.

No, odio il vento e la sua voce/ di bestia immemorabile./Dio, coloro che t’implorano/ Non ti conoscono più che di nome? (…) La luce che ci punge/ è un filo sempre più sottile./ Più non abbagli tu, se non uccidi?/ (…) E per pensarti, Eterno,/ non ha che le bestemmie.

Il discorso prosegue in Caino, raffigurato in senso mitico e storico:

Corre sopra le sabbie favolose/ e il suo piede è leggero./ O pastore di lupi,/ hai i denti della luce breve/ che punge i nostri giorni“. Una luce breve in cui si intravede già la notte eterna.
Sei tu fra gli alberi incantati?/ E mentre scoppio di brama,/ cambia il tempo, t’aggiri ombroso,/ col mio passo mi fuggi…”.

L’uomo non è onesto di natura, sostiene Ungaretti, si dibatte nella primordiale tendenza umana al peccato, sempre in conflitto tra l’istinto violento e il desiderio di innocenza. Ma il brano, pur nella sua rappresentazione pacata, riporta un’immagine molto pericolosa, specie se espressa da un aderente al fascismo, è l’attacco alla Memoria, sia sotto il profilo storico che intellettuale. La Memoria non sarebbe onesta perché ricorda al peccatore il suo delitto, che ha oblio solo nel sonno. Allontanando la memoria del peccato si tornerebbe innocenti. Sembra satira! E’ la ricerca di alibi per tutte le nefandezze commesse dal duce? Gli interpreti benevoli suggeriscono che Ungaretti intenda semplicemente inibire la memoria onde evitare la ripetizione di fatti efferati, ma che significa? E’ esattamente il contrario dell’insegnamento umanitario di Dostoevskij in Delitto e castigo: per espiare un delitto occorre ravvedersi, guadagnarsi così una nuova possibilità di vivere, senza rimuovere nulla. Ma quella debole giustificazione è smentita dal poeta stesso quando contrappone innocenza e Memoria, che definisce “figlia indiscreta della noia”. Il Pensiero è dunque noioso? Questo è oscurantismo intellettuale, il capovolgimento di un valore; ed è inutile che si cerchi soccorso in Leopardi, per il quale era noia la nostalgia delle occasioni perdute, in un contesto peraltro personale e non sanguinario. Qui siamo invece a predicare l’incoscienza/innocenza contro l’indiscreta scomoda Memoria che ricorda un fratricidio.

Il concetto torna ne “La terra promessa”: Memoria di Didone, IV coro “Solo ho nell’anima coperti schianti,/ equatori selvosi, su paduli/ brumali grumi di vapore dove/ delira il desiderio,/ nel sonno, di non essere mai nati”.  Ma qui si tratta di dimenticare un dolore, non un delitto, anche se la Memoria è sempre consolatrice e aiuta nei passi successivi.

La preghiera chiede perdono per i peccati degli uomini; rappresenta la raffigurazione delle anime dopo la resurrezione dei morti, che si uniranno e formeranno l’eterna Umanità e il sonno felice di Dio.

Come dolce prima dell’uomo/ doveva andare il mondo./ L’uomo ne cavò beffe di demòni,/ (…) Signore, sogno fermo,/ fa’ che torni a correre un patto./ Oh! rasserena questi figli (…)Vorrei di nuovo udirti dire/ Che in te finalmente annullate/ le anime s’uniranno/ e lassù formeranno,/ eterna umanità,/ il tuo sonno felice.

La sesta sezione della silloge è “La morte meditata” (1932), sei canti sulla morte, vista con distacco, impersonata da una donna. Stile ermetico, nominalistico, evanescente e indistinto.

La settima sezione, “L’amore” (1932-1935) comprende otto poesie aggiunte nell’edizione del 1936. L’amore ispirato da donne lontane, sempre in chiave ermetica e indefinita.

(Letteratura italiana moderna e contemporanea  – 14.3.1997) MP

Commenti (1)
L’appiattimento neoclassicista minculpoppista
1 #
giulia
chidicedonna.myblog.it
g@alice.it
87.0.244.16
Inviato il 28/04/2014 alle 23:11
Guarda che in america ci sono andati gli europei per primi (non è che i nativi siano scomparsi per colpa degli amerikani, visto che gli unici amerikani erano proprio i nativi), quindi prenditela con noi che siamo andati là con sete di conquista. hai provato a spiegarlo dopo, ma prima hai fatto gli stessi danni di Odifreddi

GRIDATE DI PIÙ…

Lezioni condivise 85 – Vita d’un uomo

31 Gen 2014 @ 11:59 PM

Ha ragione Moni Ovadia, l’olocausto è stato un crimine universale non contro un solo popolo, sebbene il quello ebraico ne abbia subito le conseguenze più gravi e palesi. Ogni giorno è buono per ricordare questo crimine, ma la giornata della Memoria serve soprattutto per ricordare la shoah agli smemorati, a chi tende a rimuovere, oltre che alle nuove generazioni, perché sappiano…

La Memoria, che serve per scongiurare il ripetersi di simili sciagure, deve comprendere tutte le shoah perpetrate da alcuni stati per sopprimere altri popoli, spesso fratelli; penso al dramma degli armeni, dei palestinesi, dei nativi americani, dei curdi e di tutti i popoli senza terra e senza autodeterminazione. La Memoria non può distinguere tra strage e strage, o peggio strumentalizzarla per altri fini.

La peggiore cosa che possa fare un popolo perseguitato è perseguitare a sua volta; ritenere che come erede di uno sterminio possa aver acquisito patenti per commettere ogni sorta di nefandezza. Insomma, se è tra le peggiori affermazioni nazi-fasciste la frase pronunciata nel 1869 al Congresso americano dal deputato James Cavanaugh “Io non ho mai visto in vita mia un indiano buono… tranne quando ho visto un indiano morto”, non è vero neppure il contrario, cioè non esistono popoli buoni e popoli cattivi tout court, esistono persone eccellenti e persone malvagie, con tante vie di mezzo.

Fatta questa importante precisazione, visto che i padroni della terra e della guerra decidono a loro piacimento quali sono gli eccidi da esecrare e quelli di cui far finta di nulla, mi chiedo senza soluzione, come possa aver fatto il poeta Ungaretti, così coinvolto moralmente con un regime spregevole come quello fascista, a non pronunciare una parola di scusa o di ripudio per la sua contiguità al regime. L’unico suo atto attinente peggiora addirittura la situazione perché, come altri ancora oggi, cercò di mettere sullo stesso piano vittime e carnefici. Non gridate più… Invece occorre gridare di più contro le dittature di ogni natura (anche economica), la violenza, il liberticidio e l’ingiustizia. Ho già affrontato l’argomento e devo ribadire che questa sorta di negazionismo e intorbidimento della verità, è per certi versi conforme ad altri comportamenti di Ungaretti, poco autocritico e obiettivo, egocentrico e indisponibile a fare scelte coraggiose e conseguenti a certi suoi versi sulla guerra, di modo che, senza quelle, essi appaiono come di un fastidio privato, personale.

La ventura di averlo studiato a fondo non è negativa in se, serve a poter essere critici e a leggere come dovuto tesi decontestualizzate che lo vedono poeta contro la guerra, è eccessivo; è stato piuttosto contro la sua guerra e non ha condannato la seconda guerra mondiale, non può venire a dire “Non gridate più”, urliamo eccome contro il fascismo che è stato e contro i fascismi attuali.

Egli certamente non è un esempio da indicare ai ragazzi, e sinceramente sarebbe stato più interessante studiare a fondo un Saba, un Quasimodo, al più un Montale… Questi non aderì al fascismo, se ne stette buono, è stato sincero; meno accettabile è che di un comportamento passivo, non dico ci si vanti, ma che si faccia passare come se una cosa valesse l’altra e non bisogna mai dare questa impressione specie quando si è personaggi pubblici. Impossibile pertanto separare la vita reale dalla poesia.

La summa di tutta la poetica di Ungaretti, che almeno non ha avuto anche il demerito di fare nei versi l’apologia del regime, è raccolta nell’opera Vita d’un uomo, pubblicata nel 1969. Gli 82 anni di vita gli hanno dato la possibilità di essere critico con se stesso sotto il profilo letterario; condusse in radio la trasmissione “Ungaretti commentato da Ungaretti” e non disdegnò di apparire in tv: tuttavia non so se fece auto apologia o autocritica.

La logica di Vita d’un uomo porta a concludere che tutte le sue sillogi prefigurassero quest’opera unica, fin dal 1914. In essa è inglobata la sua vita, i suoi cambiamenti stilistici, le tante modifiche alle sue opere, rese con il tempo sempre più minimaliste.

Si possono dare diverse letture dell’opera, io provo a darne una consueta, integrata…

Distinguiamo tre periodi: quello che porta a rivisitare la vita passata, anche quella del bambino e ragazzo, l’Egitto, Lucca; quello segnato dalle guerre (quindi dalla precarietà della vita stessa, dal terrore), la dimensione del tempo, un tempo che scorre e si perde, e ha come orizzonte la fine, la dimensione dell’esserci e non esserci, anche se non si è vecchi; infine il dolore, le vicende personali, ma anche un dolore oggettivo, come di insoddisfazione, recriminazione contro se stessi… che si trascina fino in fondo, tra novità che non ci sono.

Tutto si è compiuto con le prime raccolte e il resto è quasi accademia. In questo senso L’Allegria, come prima fase, e Il sentimento del tempo, quale ritorno all’ordine: sono tappe parallele per arrivare a La vita di un uomo. Si appiattiscono di fronte a questa opera Soffici e gli altri, cui lui teneva così tanto.

“Soltanto la poesia – l’ho imparato terribilmente, lo so – la poesia solo può recuperare l’uomo, persino quando ogni occhio s’accorge, per l’accumularsi delle disgrazie, che la natura domina la ragione e che l’uomo è molto meno regolato della propria opera che non sia alla mercé dell’Elemento…”

Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde
Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto.
(Il porto sepolto, Giuseppe Ungaretti, 1916)

L’allegria del 1931, raccoglie in se le prime due fasi, quella del Porto sepolto (Alessandria d’Egitto, Lucca, Parigi) e Allegria di naufragi, ricordi frammisti all’esperienza della Prima guerra mondiale, come dolore ma anche come scoperta di fratellanza e umanità, per quanto ciò sia paradossale.

La guerra gli stimola i ricordi della vita civile, l’amico arabo Moammed Sceab (In memoria), Il porto sepolto pre-alessandrino, I fiumi, attraverso i quali ripercorre la sua vita.

Sentimento del tempo non ha invece un tema unitario, se non sotto il profilo artistico, il ritorno alla metrica italica, anche in contrasto con il sentimento artistico del tempo.

Intorno agli anni Venti, dopo la Prima Guerra Mondiale si diffuse il disgusto per la guerra; tale avversione causò tra l’altro la nascita del movimento Dada. Questo movimento generò furore e scandalo. Essendoci dall’altra parte i giustificazionisti, ci fu una sorta di lotta tra civiltà e barbarie.

Dada intendeva distruggere la nuova crociata guerrafondaia. Il movimento durò pochi anni, circa sei, dal 1916 al 1922, il suo giornale “Ça Ira!”, anche se parlare di qualcosa che lo rappresenti è un controsenso. Nacque al tempo della battaglia di Verdun, mentre si manifestava un certo logoramento della guerra, e si spense all’indomani dello schiacciamento della rivoluzione tedesca. L’orizzonte di Dada è quello della guerra e della rivoluzione, compreso tra la morte di Apollinaire, due giorni prima dell’armistizio, e la sconfitta dei tentativi operai della presa del potere in Europa; sconfitta a cui è dedicato il III Congresso dell’Internazionale nel giugno del 1921. Qualche elemento comune, ma anche forti contrasti ebbe con il surrealismo e il futurismo.

Sono anni di confusione e di ricerca, tutto è tutto e alla fine molti superano questa fase tornando al classicismo. Questo è anche il travaglio ungarettiano. Torna agli stili del passato, a leggere Dante, Jacopone, Guittone. Il problema non è l’endecasillabo, ma un ordine metrico, non il versicolo o il prosaicismo.

Nel 1928 Ungaretti attraversa una crisi religiosa e si avvicina al “cristianesimo” (quale? mi chiederei, quello istituzionale, chiesastico, conciliare?), ciò tuttavia influisce sul Sentimento del tempo (1933), opera di ritorno alla tradizione e con contenuti più intimi, esistenziali ed ermetici. Nella silloge individua tre fasi: il tempo storico, Roma antica, misticismo, paesaggio; il tempo vitale, la sorte umana, Roma barocca, decadente; la percezione dell’invecchiamento, del declino fisico. Nelle edizioni il libro si compone delle sezioni: Prima, La fine di Crono, Sogni e Accordi, Leggende, Inni, La morte meditata, L’amore. Lui stesso fa rilevare la diversità tra le due sillogi pubblicate, e con la seconda diventa un riferimento per gli Ermetici.

Proseguendo nella sua opera, e tentando di districarci noi stessi in essa, Ungaretti usa dividerla in stagioni. Forse Il porto sepolto, in primis, rappresenta la Primavera, Il sentimento rappresenta l’Estate (avvicinata al barocco), con La terra promessa avrebbe voluto cantare l’Autunno della vita, il modo di affrontare questo tempo. Questo lavoro fu interrotto dalla morte del figlio, ancora bambino, in Brasile. Tornato in Italia nel ’42, vi trovò la guerra e l’occupazione nazista; scrisse la raccolta “Il dolore”, che nel suo bilancio umano e poetico sarà in molti sensi vicina alla faticosa ripresa de “La terra promessa” e dei suoi lavori conclusivi.

Come compendio che consenta di verificare il succedersi dell’opera ungarettiana, non sempre ristretta in tempi rigorosamente definiti, riporto la bibliografia essenziale:

Natale, Napoli, 26 dicembre 1916;
II Porto Sepolto, Stabilimento tipografico friulano, Udine, 1917;
Allegria di naufragi, Vallecchi, Firenze, 1919;
Il Porto Sepolto Stamperia Apuana, La Spezia, 1923;
L’Allegria, Preda, Milano, 1931;
Sentimento del Tempo, Vallecchi, Firenze, 1933;
La guerra, I edizione italiana, Milano, 1947;
Il Dolore, Milano, 1947;
Demiers Jours. 1919, Milano, 1947;
Gridasti: Soffoco…, Milano, 1950;
La Terra Promessa, Milano, 1950;
Un grido e Paesaggi, Milano, 1952;
Les Cinq livres, texte francais etabli par l’auteur et Jean Lescure. Quelques reflexions de l’auteur, Paris, 1954;
Poesie disperse (1915-1927), Milano, 1959;
Il Taccuino del Vecchio, Milano, 1960;
Dialogo , Milano, 1968;
Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Milano, 1969.

(Letteratura italiana moderna e contemporanea – 7.3.1997) MP

Commenti (3)

Gridate di più…
3 #
giulia
g@alice.it
87.5.246.25
Inviato il 17/02/2014 alle 20:17
sparite!
Il problema dei giusti è di essere troppo giusti.
Avrò la fissa, ma U. M. denunciò la presenza dei nazi proprio all’Università. Perché reintegrare chi si era macchiato di delitti così gravi?

Gridate di più…
2 #
giulia
chidicedonna.myblog.it
g@alice.it
82.60.183.152
Inviato il 15/02/2014 alle 19:27
ma sei pieno di pubblicità, come mai?

Gridate di più…
1 #
giulia
chidicedonna.myblog.it
g@alice.it
82.60.161.157
Inviato il 27/01/2014 alle 21:34
Chi non ha peccato scagli la prima pietra.
Così parlò Sciola.
Ops… forse mi confondo 😉
La capacità di un artista penso sia come quella di Sciola di creare dalla semplicità e di ideare qualcosa di eccezionale e unico, eppur universale.

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