TURCUS, MORUS E GHERRAS DE CURSA

30 Nov 2016 @ 10:58 PM 

Lezioni condivise 118 – Fernand Braudel e il Mediterraneo.

Fin dai primi anni in facoltà di Lettere questo nome cominciò a risuonarmi nelle orecchie: Braudel, Fernand Braudel, e chi sarà mai? Il suo nome veniva declamato in diverse lezioni di differenti discipline, incuteva rispetto, curiosità… chini benit a èssiri?!

Dopo averlo letto posso dire che Braudel, storico francese del Novecento, esponente della École des Annales, in realtà è un poeta, un letterato; chi ama la letteratura potrà leggere con piacere i suoi libri che parlano di storia, ma parlano di tutto, in un modo che non pesa e che anzi attrae, conquista alla lettura.

Poeta del Mediterraneo, della vita quotidiana in epoca moderna sotto il dominio spagnolo in Europa, nel tempo di Filippo II e non solo, del territorio, dei commerci, dell’ambiente, dei popoli, del rapporto tra essi, cristiani e musulmani, africani, europei e mediorientali, del tempo della pirateria, delle torri di difesa dalle incursioni della pirateria barbaresca di cui è ancora circondata la Sardegna, delle guerre di corsa, della Spagna che si espande in Africa…

            Come accennato Braudel proviene dalla scuola degli Annales e dall’omonima rivista di da Lucien Fevbre e Marc Bloch, suoi maestri.

Si può definire il Mediterraneo? I mille paesaggi, aspetti, mari, civiltà che rappresenta? Braudel prova a definire questo insieme di unità e diversità storica, geografica e culturale.

Da una realtà apparentemente unitaria nell’antico mondo greco e romano, sebbene con diverse consapevolezze, dopo la caduta dell’impero romano, nell’età medievale divenne un’entità geostorica complessa, più eurocentrica (forse solo per noi) caratterizzata nel 1054 dallo Scisma d’Oriente e diventando protagonista nella lacerazione del mondo cristiano: cattolicesimo e ortodossa orientale. In questo contesto il cattolicesimo, forte di sovrani come Ferdinando e Isabella, poi Carlo e Filippo d’Asburgo, si trova in contrasto anche con il mondo islamico, caratteristica primaria dell’età moderna a partire dal XVI sec. con lo scivolamento nell’assolutismo.

Tra i vari eventi fondativi dell’Età moderna, la caduta di Bisanzio (1453) – ad opera dei turchi di Maometto II -, segnando la fine dell’impero bizantino, ci porta in un nuovo mondo, quello della modernità, anche se si preferisce far coincidere la nuova era con la “scoperta dell’America” (1492), evento storico contro impresa geografica, fatto concreto contro ignoto, Mediterraneo contro Oceano.

Eppure è proprio questo diverso ruolo del Mediterraneo a segnare la fine del mondo antico e porre le condizioni per l’avvio del Rinascimento, con la necessità di guardare comunque al mondo classico, dando in questo senso un ruolo alla penisola italica. Così, per quanto avanti nel tempo, un’altra data simbolica di cambiamento è la battaglia di Lepanto (1571), scontro esemplare del conflitto cristiano-islamico, tra spagnoli e ottomani, nonché simbolico riscatto del cattolicesimo sul protestantesimo.

Per quanto simbolica, quella battaglia non pose certo fine ai conflitti contro i turchi e l’islam, dando avvio alle guerre di corsa moresche e al sorgere delle torri antisaracene lungo le coste, che limitarono per circa due secoli gli scontri tanto di dar modo a Braudel di parlare di “pace mediterranea”.

Nonostante tutto il Cinquecento fu per i turchi un grande secolo, tanto che il sultano Solimano I fu accostato a Carlo V per magnificenza e fu in effetti un gran riformatore, con una visione d’ordine universale, benché il conflitto con l’occidente continuò ad esistere, fino a occupare Serbia e Ungheria (1521), incentivare la funzione utilitaristica del Mar Nero, per non parlare delle conquiste a est fino all’Iraq (1534) e nel nord Africa.  Tuttavia la Turchia si avvaleva di una convivenza multirazziale e di libertà religiosa ed era caratterizzata da città con modello urbanistico di forma classica, con dinamica commerciale e finanziaria.

Si fronteggiavano già allora un modello politico-economico orientale e occidentale, già proiettato questo verso il “nuovo mondo”, con egemonia spagnola, con comprimari francesi, asburgici e Venezia. Nulla di nuovo rispetto al passato storico, due grandi forze si fronteggiavano nel Mediterraneo, con successivi spostamenti egemoni tra impero austriaco e imperialità arabo-musulmana e più avanti l’azione a tratti ambigua di Napoleone, anche in funzione anti inglese. E siamo quasi ai giorni nostri con una funzione mediterranea pressoché statica, ove si fronteggiano culture differenti, il cui principio può esser fatto risalire alla pace di Vestfalia (1648), ossia la fine della guerra dei Trent’anni, che segna il principio della nascita delle nuove statualità europee, una sorta di disgregazione dell’impero e le prime avvisaglie della Rivoluzione.

            Ma proviamo, per una più completa comprensione, a fare un passo indietro fino alle “origini” storiche del Mediterraneo, partiamo da una espressione che certamente abbiamo già sentito: i popoli del mare.

Intanto percepiamo, e per certi versi è ancora così, che i movimenti, per mare o per terra, sono sempre avvenuti dai primordi della storia da Oriente a Occidente, per questioni climatiche o di spazio vitale (il fenomeno sud – nord è più complesso, raro e non così antico).

Sappiamo anche che la “storia” la hanno sempre fatta i potenti, pertanto da lì muovono per forza di cose i nostri riferimenti.

Diciamo che fino al 1200 a.C. per quanto riguarda il Mediterraneo si era vissuta una politica di equilibrio con l’egemonia di due popoli, Ittiti (Anatolia) ed Egizi. Contraddicendo la premessa, la rottura di questo equilibrio giunse relativamente da Occidente (e sarà ancora così per i Romani), precisamente dai Balcani, con una forza dotata di armi e navi, ma quello da ovest verso est non fu mai un movimento migratorio, piuttosto colonizzatore, infatti i primi popoli del mare (definizione egiziana) furono gli Achei, i Filistei (greci) e i Lici (Asia minore). Per curiosità annotiamo che i Filistei si insediarono in Palestina, insieme agli Ebrei (originari della terra di Cana e vicinanze).

In fondo non si trattava di popoli lontanissimi tra loro: gli Ittiti scomparvero, gli egizi ressero con Ramses III.

I popoli del mare portarono anche una innovazione economica, ovvero il passaggio massiccio dal bronzo al ferro. Importante in quel periodo il ruolo di Cipro come produttore di rame e di Creta come produttore di legname, ma anche per la sua attività marinara che ne fece una potenza in mare.

Nello stesso periodo si sviluppò la civiltà Micenea basata sulla ceramica e altre importanti civiltà come quella dei Fenici, commercianti di stoffe colorare, vetro. Provenivano dall’odierno Libano e diffusero la scrittura, base della nostra e adattata dai Greci, al posto della cuneiforme, molto più complessa. Furono il principale “popolo del mare”, fondarono Cartagine, Palermo, Cagliari, Tharros e le usarono come una sorta di empori commerciali.

Siamo sostanzialmente alla vigilia della civiltà ellenica, risultanza più longeva dell’azione dei popoli del mare.

            Un altro cenno necessario per descrivere le vicende del Mediterraneo è l’espansione del Cristianesimo in nord Africa già dal I sec. d. C., quindi molto più avanti in Nubia, Etiopia e altre regioni anche a occidente, salvo scomparire quasi del tutto nel VII secolo con l’avvento dell’Islam e non solo per ragioni religiose.

La città di punta del cristianesimo antico fu Alessandria, che ebbe come vescovo Marco evangelista, e subì per prima la repressione dell’impero romano con Decio e Diocleziano.

            Molto più avanti arrivano alle guerre di corsa, legate ai corsari e alla pirateria barbaresca, siamo in età moderna e al centro c’è sempre il Mediterraneo, ma con nuovi interpreti, provenienti dall’Africa. Si trattava prevalentemente di rapide incursioni tese a ricavare un bottino di merci e schiavi; la differenza era che i corsari erano autorizzati da uno stato, con le “lettere di corsa”, recanti sorta di regole, limiti e obiettivi, i pirati erano invece veri e propri banditi del mare e talvolta le due figure si incrociavano, come nel caso degli inglesi, olandesi e francesi, anche se i più attivi erano i barbareschi, detti anche mori o saraceni, che muovevano soprattutto da Algeri.

La Spagna, che controllava il mediterraneo occidentale, dal Cinquecento in poi iniziò a costruire le torri costiere di difesa; la Sardegna, territorio più colpito, fu interamente circondata da torri in collegamento visivo l’una sull’altra. E siamo già al tempo di Braudel.

            Un aspetto molto trascurato nel Mediterraneo sono stati gli eventi climatici e le catastrofi naturali, che hanno condizionato la vita in diverse parti del globo, dobbiamo però rilevare che nel passato non si aveva alcuno strumento per far fronte a questi disastri ambientali.

Con la fine dell’era glaciale l’umanità ha potuto iniziare a stanziarsi permanentemente in precisi territori, dando luogo all’agricoltura, il commercio, l’allevamento, l’industria. Non sempre l’uomo è stato consapevole della necessità di gestire tutto ciò in equilibrio, e ha privilegiato spesso la speculazione alla necessità, specie dal Settecento in poi, dando luogo alla nuova era detta “Antropocene”, ovvero il graduale aumento delle emissioni di gas serra nell’atmosfera, provocando l’incontrollato aumento di uragani, alluvioni, siccità.

In ogni tempo imprevisti cambiamenti climatici hanno causato migrazioni e conseguenti variazioni politico-sociali nei luoghi di approdo; accadde in Mesopotamia 2000 sec. a.C., in Egitto e altrove. Tra gli imputati la fine improvvisa dell’età del bronzo con tutti i cambiamenti che comportò, in seguito la cultura “terramare”, che rese più aride terre come la pianura Padana. Fu in questo contesto che maturarono le condizioni per lo scoppio della prima grande pandemia globale, la celebre Peste Antonina, l’insorgere del vaiolo, della malaria, con ripercussioni notevoli sulla popolazione in termini anche demografici oltre che politici.

Nel 500 d.C. l’eruzione vulcanica in Asia, originò la piccola glaciazione tardoantica e contemporaneamente la pesta di Giustiniano, diffusa dalle scarse condizioni igieniche e i contagi portati dalle rotte commerciali mediante pulci e ratti.

Malattie, povertà, hanno sempre inciso sul malcontento popolare e sulle rivolte foriere di conflitti e instabilità, che cessano al ritorno di una stabilità climatica, come intorno al mille, per precipitare nella crisi del Trecento con la peste nera, in seguito a nuovo cambiamento del clima (piccola glaciazione dell’Età moderna), causa di una nuova instabilità mondiale: caccia alle streghe, guerre di religione, inquisizione, fino all’anno 1816, senza estate, con carestie annesse.

            Eppure non sembra che i potenti di oggi traggano lezione dalla storia, qui esposta per sommi capi, che probabilmente neppure conoscono, benché i segnali siano tanti, sia come cambiamenti climatici, sia come scontento popolare e conflitti armati. Peraltro il Mediterraneo è particolarmente esposto a questo genere di crisi, in termini storici e reali: eruzioni vulcaniche, terremoti, alluvioni, pandemie…

(Storia moderna II – 21.01.1998) MP

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TURCUS, MORUS E GHERRAS DE CURSA
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Inviato il 31/01/2017 alle 00:52
Interesting!

STORICITÀ DEL GOVERNO LADRO 

30 Set 2016 @ 11:58 PM

Lezioni condivise 116 – Le Cortes.

Nella Spagna che ha preceduto la Rivoluzione francese vigeva l’antico regime monarchico con qualche parvenza “democratica”. Benché il paese fosse distante dai moti rivoluzionari francesi, era vicina culturalmente al paese dei lumi e la monarchia cercava di darsi appunto una parvenza democratica con l’istituzione rappresentativa delle Cortes (Corts in catalano, Stati generali in Francia, Parlamento in Inghilterra, Curia in latino).

Le Cortes erano un organo di raccordo tra il popolo e il sovrano. L’organismo era formato in genere da tre classi sociali, bracci o stamenti (a seconda della lingua – spagnola o catalana). Il Parlamento democratico sarà ripreso solo dopo la rivoluzione Francese.

Le classi che formavano le Cortes si dividevano in: ecclesiastici (I voce) [vescovi, abati]; feudatari e nobili (II voce). I feudatari avevano i titoli di conte, marchese…, nobiltà legata al possesso di terre su cui esercitavano i loro privilegi: imposte, potere giudiziario e propri vassalli legati dalla servitù della gleba – termine derivante appunto da zolla – . I nobili generici appartenevano invece al ramo cadetto, parenti dei feudatari, ma senza feudo). Gli unici eletti erano i rappresentanti del terzo stato, delle città, tuttavia i rappresentanti scelti erano ricchi, borghesi, esperti (titolati, giuristi), raramente rappresentati del popolo, quello infatti veniva generalmente definito quarto stato.

In genere le discussioni dei parlamenti vertevano sulle richieste da avanzare al sovrano in cambio della “donazione”, ricavata dalla tassazione delle classi più povere. Le richieste avanzate dalle Cortes nascevano dalle esigenze dei parlamenti, erano dette “capitoli di corte” e in seguito legge pazionata (da pactio), modificabili solo con un nuovo patto e non unilateralmente. Le donazioni erano un do ut des e non esimevano il sovrano di chiederne delle altre di sua autonoma iniziativa. Spesso il sovrano imponeva tasse, senza convocare il parlamento, sapendo che esso, con la “donazione”, poteva chiedere cose che non intendeva concedere.

I feudatari per pagare il donativo tassavano il popolo, i vassalli. Attraverso queste angherie oggi le scienze nuove, come la demografia, ricostruiscono il numero degli abitanti di allora, visto che i sudditi erano precisi nel far pagare tutta la povera gente. Tali dati permettono anche di valutare il boom demografico e altri aspetti riferiti alle epoche successive.

Altri strumenti utili agli storici sono i libri religiosi: i quinque libri (nascita-battesimo, confessione-comunione, cresima, matrimonio, morte) compilati regolarmente dalla chiesa a partire almeno dal Seicento, mentre lo stato civile ha avuto origine solo dopo l’Unità (in genere 1866).

Le classi più agiate erano esenti dalla tassazione. Sebbene con altre modalità, ai nostri tempi, non è cambiato molto.

Proprio nel 1789 si riunirono in Spagna le ultime Cortes dello Stato assoluto borbonico; l’influenza della Rivoluzione francese si farà sentire nel concreto, insieme alle armi napoleoniche, circa vent’anni dopo, precisamente nel 1808, al momento dello scoppio della Guerra di indipendenza spagnola contro l’occupante francese.

Ripercorriamo sommariamente l’idea medievale e moderna di Cortes per comprenderne l’importanza nell’immediata vigilia della Rivoluzione.

In origine le Cortes (da curtis, riunione) ebbero la funzione di unificare i fueros visigoti (erano dei privilegi, immunità, norme anche non scritte che regolavano il diritto dei regni iberici all’inizio della Reconquista) relativi ai vari ceti intorno alla Corona e succedevano ai concilii visigoti. Al tempo del passaggio dall’arianesimo al cattolicesimo (589) si stabilì una comunanza di governo tra affari laici ed ecclesiastici (assemblee dei signori di corte e prelati). Fu un processo permanente e lento, quanto lo fu la Reconquista.

Si può considerare il 1188, inizio del regno di Alfonso IX (in León), come data di svolta per le Cortes, rappresentante la condivisione del potere per certi aspetti paragonabile all’imposizione della Magna Charta (libertà e diritti) in Inghilterra nel 1215, oltre un secolo dopo.

Occorre dire che le Cortes nel corso della storia, prima e dopo il 1188 (chiamata del terzo stato – Estado Llano – a parteciparvi con gli stamenti ecclesiastico e nobiliare), ebbero importanza e ruoli differenti, anche in rapporto ai territori interessati (León, Catalogna, Aragona, Castiglia)…

Generalmente le Cortes si occupavano – come detto – del donativo al re o l’imposizione di tributi, di giustizia e soprattutto delle domande presentate al re dal terzo stato, mentre l’attività legislativa era interamente riservata al monarca.

Come accennato, le utime cortes dell’antico regime si tennero nel 1789, convocate da Carlo IV, dopo anni di mancate convocazioni. L’unico braccio presente fu lo Estado Llano. Quasi in concomitanza in Francia, alla presenza di Luigi XVI, si riunivano gli Stati generali (terzo stato). Quello francese era un terzo stato era composito, dai contadini alla borghesia, agli artigiani (organizzati in corporazioni e confraternite), mercanti, mendicanti, perfino la mafia urbana (allora braccio armato della nobiltà).

I regnanti, prevalentemente illiberali, usavano l’istituto delle Cortes per i propri interessi. Ad esempio nella testa di Carlo IV, quelle del 1789 dovevano ripristinare l’ordine successorio stabilito dalle Partidas e abrogato da Filippo V, e non c’era modo di farlo in quanto la costituzione prevedeva per tali modifiche il consenso degli stamenti. Questa mossa del re spagnolo coincise con l’inizio della rivoluzione in Francia, l’occupazione della Bastiglia, l’approvazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, l’abolizione dei diritti feudali, la sostanziale perdita del potere da parte di Luigi XVI. Ciò portò a una solidarietà tra i Borbone, che governavano entrambi gli stati.

Eppure l’influenza predominante era francese, pertanto la monarchia spagnola si chiuse per evitare fatti analoghi in Spagna e stesso destino toccò alle Cortes che già preparavano istanze da chiedere al re. Si avvertivano distanze sostanziali tra l’illuminismo francese e quello spagnolo (detto “Ilustraciòn”), rivoluzionario il primo, sostanzialmente l’opposto il secondo, in quanto subordinato alla monarchia, al potere ecclesiastico e al controllo dell’Inquisizione, il cui potere era solido, benché ripartito tra i vari stati formatisi con la reconquista (in Francia lo stato era unitario).

Nelle Cortes del 1789 fu approvata una Pragmatica sanzione che modificò la legge salica, consentendo la successione al trono anche alle donne, ma Carlo IV non la fece pubblicare, lo fece solo Ferdinando VII nel 1830 per favorire sua figlia Isabella II (la regina bambina) a discapito di suo fratello don Carlo, ne nacque una guerra di successione tra liberali (Isabella) e conservatori (don Carlo). La guerra porterà ad altre modifiche da parte della reggente Maria Cristina (moglie di Ferdinando VII), con l’introduzione di un parlamento bicamerale (1834): stati privilegiati (pròceres) e popular.

Sempre nel 1789 in Francia il terzo stato tentò di abolire la votazione divisa per stati col conseguente ritiro dall’Assemblea, creando di fatto una rottura politica con la monarchia.

Fu allora che si parlò per la prima volta di Presidente del Consejo de Ministros.

Tutte queste importanti innovazioni sotto il profilo giuridico nell’assetto degli stati prescindono dal contestuale scoppio della Rivoluzione francese, che non incise se non casualmente sul nuovo corso istituzionale spagnolo, e neppure sullo stato spagnolo, almeno fino a che le attenzioni della Prima Repubblica francese (1792) non si orienterà anche verso i Pirenei, complice l’alleanza contro il Portogallo. L’occupazione di fatto portò per sei anni le armate napoleoniche nella penisola iberica, insieme a riforme della cosiddetta Spagna levantada (Estrado Llano, borghesia illuminata) che vantava esponenti come Lorenzo Calvo de Rozas e il conte di Floridablanca, richiedenti riforme e libertà di stampa, operando nella Junta Suprema Central (poi Regencia) nel primo decennio dell’800, anno di guerra d’Indipendenza per la Spagna.

Nel 1810 le Cortes (sostituendo di fatto la Regencia) si riunirono a Cadice per operare delle riforme, ma sempre nello spirito della verdadera constituciòn (Assemblea gaditana), con influenze rivoluzionarie, ma con il prioritario ritorno alle leggi pre-settecentesche, dunque preborboniche con il ricorso a un’unica camera con il solo Estrado llano, cortes costituenti con il mandato di redigere una costituzione.

Si verificò una sorta di commistione tra l’unicamerale francese del 1791 e le antiche Cortes, che rimasero come organo legislativo anche in pieno ottocento, ma in presenza della Corona, procedendo nel tempo a revisioni costituzionali in base alle tendenze dei capi di governo.

Le cortes del 1789, ultime dell’antico regime, segnano dunque uno spartiacque con le successive (del 1810) che tuttavia conservano lo stesso spirito ispirativo, risultando tuttavia le più innovative.

(Storia moderna II – 14.01.1998) MP

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STORICITÀ DEL GOVERNO LADRO
Berenice
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Inviato il 16/08/2017 alle 07:13
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DEI RICORSI DELLA STORIA

Lezioni condivise 112 – Formazione della filosofia moderna

31 Mag 2016 @ 11:20 PM

Credo di aver già filosofeggiato sulla filosofia; materia ostica quando si tratta di comprendere quella degli altri, probabilmente me la caverei meglio a spiegare la mia, benché sia zeppa di complessi distinguo, di ardue teorie e tripli salti carpiati… bisognerebbe inserire la filosofia nei giochi olimpici! Diciamo pure che il mio pensiero sulla filosofia è in movimento, anche rispetto a di quali filosofi si parla. Cercherò di essere sufficientemente obiettivo.
La concezione ciclica della vita – rappresentata da una spirale – ci perviene dall’epoca greca e romana, è la teoria secondo cui i fatti si ripetono nel tempo, ma anche nello spazio, mediante dei cicli, e di essa elaborò poi una teoria precisa il Vico. Non si tratta esclusivamente di un’interpretazione della storia, ma di tante altre discipline, dalla fisica ad altre scienze, comprendendo religione e psicologia.
Il tempo ha certamente un valore quantitativo (chrònos) e un aspetto qualitativo (kairós). Gli antichi greci si occupavano soprattutto di quest’ultimo valore, cioè di quanto accadeva di significativo, senza considerare la misura, relegata al fattore economico (Thorwald Dethlefsen, Il Destino come scelta, 1984). Ne abbiamo ancora oggi riscontro nella denominazione dei giorni della settimana o dei mesi. Era fondamentale l’inizio, pertanto si ragionava su quando compiere una determinata attività.
Ai nostri giorni e fin dalla fisica di Newton (tra Seicento e Settecento), queste concezioni di ciclicità vengono considerate ascientifiche, a parte i fenomeni naturali come le stagioni, il ciclo della vita e simili, mentre per tutto il resto l’universo procede progressivamente, seppure con reflussi. Non mancano naturalmente teorie complesse (buchi neri – tempo fermo – e via dicendo) di difficile spiegazione razionale allo stato attuale. Anche la concezione del tempo lineare – concetto biblico e comunque monoteista – viene considerato ascientifico, in quanto tutto procede senza mutazione una sola volta, ma inoltre vi è un inizio e una fine e tutto è affidato alla provvidenza. La filosofia di Hegel e quella di Marx, tentano di conciliare tempo ciclico e lineare, secondo lo schema tesi-antitesi-sintesi, con l’idea progressiva di società che si evolve.
Il più noto teorico della ciclicità è stato Giambattista Vico, contemporaneo di Newton, elaborò le sue tesi in “Scienza nuova”, ricostruendo la storia nell’alternanza di periodi democratici ad altri di dittature e in campo economico periodi di benessere seguiti da altri di crisi. Non fu capito e apprezzato dai contemporanei, tutti appiattiti sulle idee di Cartesio, per il quale le vere scienze erano la fisica e la matematica, concetto che Vico in sostanza capovolse, ritenendo unica vera scienza la storia, in quanto essa era fatta dall’uomo, in opposizione alla natura. Tuttavia lo stesso Vico fondava la storia come mossa dalla provvidenza, se non altro perché condizionava positivamente l’azione umana e tuttavia la distingueva dal fato, che non prevedeva il libero arbitrio. Il punto è controverso e forzato come quello derivante sulla corrispondenza tra religione cristiana e paganesimo, proprio perché entrambe volute dalla “provvidenza”, che nei tempi antichi usò il paganesimo, perché la vera religione non poteva essere compresa.
In principio il paganesimo servì allo scopo di frenare la hybris umana, punita con la nemesis. Vico si serviva della religione per dimostrare le sue tesi, dunque pur essendo credente non si soffermò sull’opera del Cristo, ma sull’opera della chiesa istituzionale, come peraltro sulla corrispondente mitologia pagana. Ma siamo certi che avesse analizzato bene la storia e i suoi effetti? Il problema delle religioni è proprio questo: l’uomo adegua il messaggio originale, semplice e giusto alla sua convenienza non così trasparente, fino a discostarsene al punto che del principio iniziale non si riconosce più nulla. Determinati libri della Legge, così, appaiono confezionati a vantaggio totale di Israele, si tollera il massacro continuo e ripetuto dei popoli non semiti che nei testi risulta voluto dalla divinità. I re sono Messia, eletti da Dio, e spesso agiscono in modo non esattamente giusto, giacché se un testo è sacro, non può essere giustificato con la cruda storia.
Questo è il concetto che opporrà i romani a Gesù. Egli il Messia, dunque re dei giudei, pertanto loro oppositore, tende a sovvertire l’ordine costituito, è un sovversivo a capo di una banda di sovversivi. Dal punto di vista romano la religione c’entra solo in quanto si oppone al loro potere. Si innesca così il meccanismo storico che produrrà le successive vicende del Cristianesimo. I Cristiani, seguaci di Gesù, cui i romani danno la caccia, fuggono da Israele ad Antiochia, a nord, in territorio siriano e sono i più poveri. Quelli più benestanti, in seguito alla conversione di Paolo di Tarso, si stabilirono gradualmente a Roma. Già da allora maturarono l’indipendenza rispetto all’ebraismo, rimanendo monoteisti, questa fu la causa della seconda persecuzione di Diocleziano.
Il concilio di Nicea (325) creò le prime spaccature, inizialmente con l’allontanamento degli ariani, poi con il divenire religione di stato (Costantino – 313, Teodosio – 391): si distinsero latini (cattolici), orientali, ortodossi, copti, siriaci, armeni. La chiesa romana, ormai autoritaria, da sottoposta allo stato, ne diviene guida, dando luogo alle prime guerre di religione e all’evoluzione soprattutto del cattolicesimo, che dal basso medioevo, fino a buona parte dell’età contemporanea si allontana dall’insegnamento originario dei Vangeli per adottare un comportamento politico, monarchico, statuale.
Occorrerebbe comprendere a quale tipologia religiosa si rifaceva il Vico, benché è immaginabile fosse quella gerarchica, senza problematiche di autenticità evangelica. La ciclicità vichiana, peraltro in contrasto con quella lineare cristiana, si fonda su tre età che si ripetono: degli dei, degli eroi, degli uomini. L’età degli dei, avviene in un regime teocratico ove tutte le azioni sono sottoposte alle indicazioni degli oracoli. L’età degli eroi (mitologia) è invece dominata dall’aristocrazia che si arroga il diritto di comandare e di governare in quanto superiore al popolo. L’età degli uomini si basa sull’uguaglianza e sugli ideali di democrazia e libertà, sulla ragione. Le prime due sono definite età poetiche, creative, si passa dal caos all’ordine, dalla fantasia alla razionalità, ma raggiunto questo stadio, si verifica un regresso e si torna alla barbarie. Vico individua la fine del primo ciclo con la caduta di Roma e l’inizio del nuovo nel basso medioevo, ma giunto all’epoca in cui visse, in piena età moderna, le sue teorie si fanno nebulose e contraddittorie, forse lo avrebbe aiutato la Rivoluzione francese, ma non la visse. La sua tesi era inoltre in contraddizione con la religione cristiana. Ciò emerse soprattutto dalle interpretazioni che ne seguirono, anche opposte tra loro.
Secondo l’Accademia di Lipsia, Vico era un gesuita conservatore e la sua opera rappresentava una concezione della storia tesa a favorire la Chiesa Cattolica (tesi adombrata più sopra). Dal canto loro i conservatori cattolici accusarono Vico di mettere in dubbio la concezione biblica della storia e il potere trascendente di Dio su di essa. Gli anticlericali e i socialisti invece esaltarono Vico fino a tutto il Settecento in quanto le sue teorie erano funzionali alla rivoluzione. Come si vede, posizioni che contrastano con la volontà del Vico stesso, ma dovute al suo voler conciliare l’inconciliabile tra paganesimo e cristianità.
Acquisiti dal vichianesimo gli elementi utili, portiamoci necessariamente nell’età contemporanea, che facciamo partire dalla Rivoluzione francese. Questa età è ancora viva, o essendone iniziata una nuova dovremmo addirittura cambiargli nome? Magari definendola età delle Rivoluzioni democratiche e osservando in essa tutti gli elementi originari e successivi che ne hanno determinato la fine.
Gli anni Ottanta del secolo scorso possono essere considerati età di mezzo tra la fine delle grandi rivoluzioni sociali e l’inizio del regresso (allora chiamato riflusso) che persiste tuttora.
Questo riguarda grandi temi sotto gli occhi di tutti, primo quello della disuguaglianza economica, che contiene l’aggravarsi della situazione in quello che era il terzo mondo, la perdita dei diritti da parte della classe operaia e la nascita di una classe di disoccupati e privi di diritti, l’arretramento della condizione e dei diritti delle donne, la nascita di nuove branche di umanità discriminate o che erano in via di liberazione e sono di nuovo oppresse o vittime di nuova schiavitù.
Nella preistoria la facoltà della donna di generare nuove vite la rendeva agli occhi dei maschi una divinità, tanto è vero che per millenni le divinità pagane principali erano femmine. Le cose cambiarono con le migrazioni delle popolazioni dall’Asia fino al tramonto della civiltà egizia. Da oriente viene portata l’idea della donna madre, non dea, e in seguito demone. Nel mondo greco c’è già un predominio maschile. Avviene il passaggio da Inanna, a Ishtar, a Isis (grande madre) fino a Lilith (Eva per l’ebraismo). Nel cristianesimo primitivo è evidente il ruolo positivo della donna. Partendo dal concetto che il trascendente deve diventare immanente, non c’è differenza nel Regno tra uomo e donna. Vangelo di Tommaso (loghion 22): “Quando di due farete uno, quando farete la parte interna come l’esterna, la parte esterna come l’interna e la parte superiore come l’inferiore, quando del maschio e della femmina farete un unico essere per cui non vi sia più né maschio né femmina (…) allora entrerete nel Regno.”
E’ necessario ribadire che le rivoluzioni, per tutta una serie di ragioni, non ultima l’inesperienza dei rivoluzionari, la caducità umana o l’infiltrazione di elementi sabotatori, dopo un avvio in linea con gli scopi che si proponevano, quasi sempre hanno trovato chi se n’é impadronito e ha fatto in loro nome tutto il contrario di quanto era dovuto: il caso più clamoroso è stato quello di Stalin per la rivoluzione russa, ma è accaduto anche con Napoleone e altri, senza contare le rivoluzioni che non erano tali, come quella americana, visto che è avvenuta sulla pelle dei nativi.
La storia non si può semplificare e tutti i fatti devono essere presenti e lo storico non può essere servo dell’ideologia, ma della verità vera, non quella dei controrivoluzionari. La rivoluzione francese è stata la madre di tutte le rivoluzioni e in più occorre ammettere che i suoi valori non si sono spenti con la restaurazione e continuano ad essere vivi. Liberté, Égalité, Fraternité è un motto e un programma valido ancora oggi e che insieme presuppone la pace anche come semplice assenza di conflitti di qualsiasi genere.
Gli stati assoluti, con le nuove assemblee (stati generali, parlamento, cortes) avevano aggregato al potere la classe borghese, almeno a livello consultivo, ed effettivo riguardo alla tassazione. Da questa novità era escluso il popolo la cui condizione rimaneva la medesima da oltre una decina di secoli. Le monarchie inoltre adeguarono i rapporti di forza con la chiesa, non più completamente egemone.
L’insoddisfazione popolare cova e ha evidenti le ingiustizie perpetrate nei suoi confronti, da questo malcontento nasce la Rivoluzione, che nel suo corso prenderà anche strade contraddittorie, ma i cui valori restano ormai insostituibili e resta la forza popolare, quando non viene sopraffatta dai fascismi. La libertà, al di là della distorta interpretazione odierna di alcuni che la intendono come il diritto di fare solo ciò che si vuole, è invece un concetto sociale che si basa sulla libertà di tutti e perché questa ci sia, ognuno deve rispettare quella degli altri, dunque il senso di giustizia che è proprio dell’uguaglianza: nessuno deve prevalere sull’altro, tutti hanno uguali diritti e doveri. A cementare questi concetti deve esserci dunque la solidarietà tra le persone, quella che i rivoluzionari chiamarono fraternità, senza la quale non esistono vere libertà e uguaglianza.
E’ forse libertà quella degli USA (per fare l’esempio di chi più si riempie la bocca insensatamente di quella parola), quando per esistere hanno sterminato le popolazioni indigene, praticato lo schiavismo e il razzismo, vivi ancora oggi con effetti letali e dove la disparità tra ricchi e poveri è massima? E fanno questo magari definendosi cristiani… usando cioè proprio il nome di ciò che non sono. E ancora viviamo all’interno di questo grande equivoco.
(Storia del risorgimento – 12.5.1997) MP

199 filosofia moderna

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DEI RICORSI DELLA STORIA
1 #
sally brown
innellama@tiscali.it
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Inviato il 15/05/2016 alle 17:16
Sempre a proposito di ripensamenti?

LE NOSTRE RETROCESSIONI

Lezioni condivise 108 – La sarda rivoluzione

31 gennaio 2016 @  16,01

Le idi di febbraio del 1793 sono state fatali alla Sardegna per l’imperizia e indolenza dei rappresentati della Rivoluzione francese e per l’ennesimo errore di valutazione e disunità dei sardi.

Quell’anno – dopo aver occupato l’Isola di San Pietro (8 di gennaio) e avervi creato la repubblica rivoluzionaria dell’Isola della Libertà, secondo la politica di esportazione della rivoluzione – una sparuta flotta francese (si parla tuttavia di 4000 uomini) al comando dell’ammiraglio Laurent Truguet, si presentava nel golfo di Cagliari nei giorni della merla e bombardava la città; doveva trattarsi di colpi dimostrativi, antisabaudi, tendenti a metter paura ai piemontesi e dare un segnale ai sardi affinché si sollevassero; si era disposti a liberarli dal giogo sabaudo.

Nei giorni successivi i francesi sbarcarono a Margine Rosso (litorale di Quartu Sant’Elena) pensando di conquistare l’isola con l’appoggio dei sardi. Ma questi, considerato un gesto ostile quel bombardamento e visto che il viceré Balbiano e la sua forza militare si erano asserragliati in Castello (cittadella del potere), organizzarono milizie popolari.

In una giornata di nebbia, i francesi, che dovettero fare i conti con le siepi di figumorisca che chiudevano il litorale, sorpresi, non vedendo nulla, presi dal panico, si spararono tra loro, si ammutinarono e tornarono sulle navi, respinti in qualche modo.

Probabilmente fu una delle battaglie più beffarde della storia, oltre che per le paradossali ragioni logistiche, per il fatto che si fronteggiavano salvatori e potenziali salvati, i quali invece proteggevano i propri aguzzini, vigliaccamente in fuga e pronti ad arrendersi.

L’avvenimento ha diversi aspetti grotteschi, al di là della drammaticità vissuta dai protagonisti, ma obiettivamente poteva cambiare le sorti della Sardegna, liberarla da una dinastia fellona che avrebbe continuato ad opprimerla fino ai giorni nostri con i suoi eredi postfascisti. Certo, la nostra debole ventura in duecento anni non si sa quale sarebbe stata, visti anche gli sconvolgimenti della Francia negli anni successivi, ma magari non sarebbe stata peggiore di quella che ci è toccata con i furfanti Savoia e i vari italioti.

Visto il rocambolesco fallimento della missione i rivoluzionari francesi lasciarono Cagliari intorno al 20 febbraio.

Dopo qualche giorno le milizie sarde si sciolsero, ma tra aprile e maggio, si autoconvocarono gli Stamenti (il parlamento sardo), a loro modo di vedere non doveva finire lì, si tenne un animato dibattito, poi come al solito l’elefante partoriva un topolino: si elaborarono unicamente 5 domande (richieste) da presentare al re quale risarcimento per avergli salvato il culo.

Si chiedeva per i sardi di Sardegna un minimo di autogoverno, di autonomia. Venne quindi eletta una delegazione da mandare presso il re a Torino, capoluogo del Regno di Sardegna. I designati furono: Girolamo Pitzolo, Antonio Sircana, Domenico Simon, Michele Aymerich (vescovo di Ales), Francesco Ramasso, Pietro Maria Sisternes. I primi di settembre erano tutti a Torino, ma non solo il re non li ricevette, anzi ordinò che cessasse la riunione degli Stamenti a Cagliari.

L’organismo stamentario era un’assemblea dei tre ordini (reale – cioè civile -, ecclesiastico e nobiliare) creato dalla corona spagnola e mantenuto sotto i sabaudi, ma mai convocato come era previsto dalle norme della statualità sarda.

La delegazione venne ricevuta soltanto nel dicembre 1793, ma in sostanza non ottenne nulla, se non qualche velata illusione; infatti il 1° aprile 1794 il ministro Granari, per conto di Vittorio Amedeo III, respinse le rivendicazioni delle “Cinque domande”, senza neppure comunicarlo ai delegati, ancora a Torino: sette mesi, a non si sa che fare, per avere un rifiuto da tempo palese.

Il rifiuto venne comunicato al viceré perché ne informasse gli Stamenti, dai quali la delegazione apprenderà la notizia (!).

Mentre a Torino si dormiva occupandosi d’altro, a Cagliari, come se non bastasse l’umiliante e sferzante notizia, iniziò la repressione. Il 28 aprile 1794 venivano arrestati i supposti capi della rivolta, Vincenzo Cabras e Bernardo Pintor.

La cecità della reazione si confermò ancora una volta e l’insurrezione popolare nei quartieri di Stampace, Marina e Villanova non si fece attendere. Gli insorti conquistarono Castello e il Palazzo viceregio. Maturò la decisione di cacciare i piemontesi dalla Sardegna.

La Reale Udienza – composta da soli giudici sardi – gli Stamenti e le milizie popolari, solidali tra loro, realizzarono il governo autonomo dei Sardi.

Lo scommiato di tutti i piemontesi dall’isola (514, compreso il vicerè ed escluso il vescovo e pochi altri prelati) avvenne il 7 maggio; vennero cacciati con i loro bagagli, trasportati al porto dagli stessi insorti su carrette.

Ma lo spirito dei vespri durò poco; già a luglio prevalsero i conservatori che occuparono le maggiori cariche: Gavino Cocco (reggente la Reale Cancelleria), Girolamo Pitzolo (intendente generale), Antioco Santuccio (governatore di Sassari), Gavino Paliaccio, marchese della Planargia (generale delle armi). Così il 6 settembre 1794, la restaurazione era completata, giunse a Cagliari il nuovo viceré, Filippo Vivalda.

Nei primi mesi del 1795 il nuovo incaricato degli affari di Sardegna (conte Galli della Loggia), con i traditori Paliaccio e Pitzolo, progettò una sanguinosa repressione. Si inviarono a Torino liste di proscrizione dei capi della rivolta, si adottarono provvedimenti polizieschi e intimidatori nei confronti dei deputati agli Stamenti, ma questi li denunciarono al popolo; ne derivarono nuovi tumulti e Pitzolo e Paliaccio furono linciati nel luglio successivo.

Intanto a Sassari il timore della rivolta fece meditare al governatore Santuccio la secessione da Cagliari. Queste manovre provocarono nei villaggi del sassarese dei movimenti antifeudali a Thiesi, Semestene, Bessude, Bonorva, Torralba, Pozzomaggiore, Ozieri, Ittiri, Uri. Il popolo rifiutava di pagare le tasse e assaltava i palazzi baronali.

Questi moti  si protrassero dal settembre ai primi mesi del 1796: i riformatori si allearono con il movimento antifeudale, cui aderivano preti rivoluzionari come Francesco Sanna Corda (Torralba) e Francesco Muroni (Semestene) e gli avvocati Gioacchino Mundula e Gavino Fadda.

Il 23 ottobre 1795 i commissari degli stamenti Francesco Cilocco, Francesco Dore, Giovanni Onnis, Antonio Manca, Giovanni Falchi, si impegnarono nel sostegno del movimento antifeudale e a novembre i comuni di Thiesi, Cheremule, Bessude, dichiararono di non riconoscere più l’autorità feudale. E’ l’avvio dell’abolizione del feudalesimo in Sardegna. In pochi mesi aderirono più di 40 villaggi.

Alla fine di dicembre le brigate antifeudali guidate da Cilocco e Mundula presero Sassari e condussero a Cagliari Santuccio e il vescovo Della Torre.

Il 13 febbraio 1796, Giovanni Maria Angioy venne nominato alternos (sostituto del vicerè) dagli Stamenti per il Capo di sopra (Cab”e susu) con l’incarico di affrontare il problema delle rivolte antifeudali. Entrò a Sassari osannato dalla folla il 28 febbraio. Era considerato dal popolo la loro guida contro i feudatari. In questi frangenti Francesco Ignazio Mannu scrisse l’inno antifeudale, noto come “Procura de moderare”.

A Cagliari intanto i rivoltosi moderati, Sisternes, Cabras, Pintor e Sulis, si allearono con i feudatari e con l’alto clero; anche gli Stamenti si schierarono in senso antigiacobino e cacciarono i seguaci dell’Angioy, tra cui Mundula e Fadda, proprio mentre tra sabaudi e francesi si pervenne alla pace.

Il 2 giugno 1796 Angioy iniziò la sua marcia verso Cagliari con lo scopo dichiarato di abolire il feudalesimo, ma già a Macomer incontrò l’opposizione dei nobili, mentre ad Oristano le sue milizie si diedero al saccheggio, mettendolo in forte difficoltà e isolandolo.

Pochi giorni dopo il re, con una mossa politica ingannevole, accolse le “cinque domande”, revocò l’autonomia ai sassaresi, destituì e inquisì Angioy, concesse l’amnistia ai rivoltosi di Cagliari, autorizzò la nascita di una milizia sarda, ma nessuna concessione venne in realtà attuata, anzi, in seguito alla ripresa del conflitto con la Francia (1799), Carlo Emanuele IV si rifugerà in Sardegna, e imporrà nuove tasse e maggiori soprusi, ogni impiego fu occupato da torinesi.

I reazionari si armarono contro l’Angioy, che rientrato a Sassari fu costretto a lasciare la Sardegna attraverso la Corsica; riparò a Genova e in altre città del regno, per poi stabilirsi definitivamente a Parigi, dove morirà nel 1808, dopo aver tentato fino all’ultimo di convincere la Francia a liberare l’isola.

In Sardegna intanto, gli Stamenti, sotto il controllo di nobiltà e clero attuarono una feroce repressione dei moti antifeudali nei comuni del sassarese, in particolare a Thiesi, Bono, Ossi, Usini, Tissi, Suni, Bessude. Ma la rivolta non fu doma e riprese nel settembre 1796 capeggiata da Cosimo Auleri e dai fratelli Muroni. Da vari villaggi, tra cui Bonorva si attaccò nuovamente Sassari. Tuttavia alla fine dell’anno la rivolta era sconfitta con processi sommari e condanne a morte. Ebbe inizio la restaurazione con il ripristino ancora più duro della tassazione, che già infieriva sulle popolazioni con le tasse più fantasiose (per tali approfondimenti vi rimando al mio saggio “Rivoluzionari in sottana”, Roma 2009).

Nel Settecento, dunque, il regno di Sardegna subiva più che mai la sorte legata alle vicende internazionali. Cessava di essere una delle Corone spagnole sotto Filippo V, in una Spagna ormai debole e sconfitta e dopo un passaggio all’impero Austriaco nel 1713 (trattato di Utrecht), per un capriccio dello stesso, passò ai Savoia con il trattato dell’Aia (1720). Insomma, il tentativo di riconquista spagnolo peggiorò la nostra situazione.

Dopo l’esperienza Giudicale, che vide la Sardegna autogovernarsi per almeno sei secoli, l’ingerenza di “papa” Bonifax che inventò dal nulla il fittizio Regno di Sardegna e Corsica, e lo donò al Regno d’Aragona, nominalmente, finché questi per una ingenuità politica del Giudicato d’Arborea non ne avviarono la  reale conquista, trascinatasi per oltre un secolo e durata tra Aragona e Spagna, oltre tre secoli: da minor tempo siamo colonia italiana.

Da quando abbiamo perso l’indipendenza – venuta dopo altre dominazioni di vario genere, alcune delle quali non ostili e considerabili quasi come migrazioni di popoli nell’isola, conviventi in pace o meno con le popolazioni autoctone – noi sardi abbiamo visto solo domini che si sono preoccupati unicamente di imporre tasse, sfruttare e distruggere il territorio.

Molti errori sono stati fatti nel passato: dal fidarsi di alleanze pericolose fino alla svendita della statualità, ma quanto questi, hanno pesato le divisioni, riporre fiducia su parti sbagliate e su chi non aveva a cuore le sorti della Sardegna.

Giovanni Maria Angioy è stato l’ultimo a voler riunire la Sardegna sotto un governo di sardi (non di regnanti stranieri) ed è stato lasciato solo. Non solo, come si noterà dalle fasi della rivolta sopra esposta, alcuni di coloro che la avevano compiuta, come i Cabras, i Pintor e perfino Vincenzo Sulis (che poi pagherà personalmente la fiducia in Carlo Feroce), furono gli stessi a reprimere i moti antifeudali e a favorire la restaurazione.

Quella che celebriamo come “Sa Die”, il 28 aprile (1794), è stato solo l’inizio di un incendio che doveva essere mantenuto acceso, invece, senza che nessuno ci attaccasse, abbiamo pensato noi stessi a spegnerlo, a chiedere ai feudatari e soprattutto al re, prego accomodatevi, continuate a tassarci e a spoliarci, noi e le nostre terre. Vincenzo Sulis pagò – e non ne fu pago sembrerebbe – la sua fedeltà ai sabaudi con 20 anni di carcere in una torre, comminati dagli stessi.

Dopo di allora solo fuochi fatui… Benei, fadei, xadei, pighei, furei su chi ‘oleis (come cantano dr. Drer e Crc posse).

E’ davvero paradossale: l’unica volta che qualcuno è venuto in nostro aiuto e poteva liberarci dai sabaudi, lo abbiamo respinto.

(Storia del risorgimento – 30.4.1997) MP

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LE NOSTRE RETROCESSIONI

            Jess

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Inviato il 28/01/2016 alle 19:57

Hello, there’s even more now…

PIÙ SERPENTI DI COSÌ! (My sweet Lady Jane…)

Lezioni condivise 105 – La regina vergine e Felipe el prudente.

31 Ott 2015 @ 8:33 PM

Elisabetta I d’Inghilterra e Filippo II di Spagna, hanno regnato quasi cinquanta anni il loro paese, quasi in contemporanea. A un certo punto della storia, per ragioni politiche, ovviamente, lo spagnolo si mise in testa di voler sposare la Tudor. Conosciamo i personaggi e come andò.

Elisabetta I (1533–1603) era figlia di Enrico VIII e di Anna Bolena, era anche detta “regina vergine”, fu l’ultima monarca della dinastia Tudor e l’unica superstite tra i figli del re e della Bolena. Enrico VIII avrebbe voluto un maschio e non essendo riuscita la seconda moglie a darglielo, fu accusata di ogni delitto e decapitata nel 1536. Come la sorella Maria, nata da Caterina d’Aragona, fu dichiarata illegittima e insieme a lei relegata ad Hatfield, in esilio.

Delle nefandezze di Enrico, abbiamo già detto (lezione 98). Ci interessa ora seguire il filo che portò Elisabetta al regno, anch’esso non del tutto lineare.

Occorrerà sapere che Jane Seymour, terza moglie del padre, rimettendoci la vita, diede il figlio maschio tanto atteso, Edoardo. Un po’ questo, ma soprattutto la benevolenza di Anna di Clèves (quarta moglie), riportò a corte la piccola Elisabetta, crescendola fino a 24 anni. Ma fu Catherine Parr (la sesta moglie) a riconciliare il re con le figlie e a reinserirle nella linea di successione, dopo il loro fratellastro.

La futura regina ricevette un’educazione protestante e umanistica e rivelò le sue spiccate doti di apprendimento che la resero molto colta, conoscitrice delle lingue e di doti oratorie.

Come previsto, a Enrico VIII, morto nel 1547, successe Edoardo VI; questi morì a 15 anni, tuttavia nel suo testamento nominò erede lady Jane Grey, sua cugina e coetanea, deposta dopo nove giorni e decapitata l’anno dopo a soli 17 anni.

Una vicenda tragica, barbara (nel senso corrente del termine): Jane era cugina carnale di Maria, Elisabetta ed Edoardo; non poteva avere colpe sia per la sua età, sia perchè nominata del re; pagò in modo eccessivamente crudele le ambizioni degli adulti e le lotte di religione. Firmò la sua condannala nuova regina Maria, la cugina con cui studiava, cattolica, e passò alla storia come “la sanguinaria” (bloody Mary). Di un popolo che fa uccidere adolescenti, perchè Maria decise il delitto per il furore del popolo protestante, non si sa cosa pensare.

Maria I, fece incarcerare anche la sorella Elisabetta (che in seguito si finse cattolica) e compì una serie di azzardi e condanne, sposò Filippo II di Spagna in cerca di un erede, ripristinò il cattolicesimo, ma non durò molto: morì senza eredi nel 1558 e le successe, non senza problemi, Elisabetta, la quale ripristinò l’anglicanesimo e per non essere da meno della sorella, fece incarcerare per 19 anni e poi giustiziare, la cugina Maria Stuart, cattolica, che lasciò la Scozia di cui era regina, pensando che la congiunta la aiutasse, visto che era caduta in disgrazia.

La successione a Maria I creò diversi problemi a Elisabetta, sia con la Spagna, che riteneva Filippo II erede in quanto marito della regina, sia con la Scozia, che appoggiava Maria Stuarda, ma vincendo entrambe le guerre, poté fare dell’Inghilterra una potenza commerciale e iniziare la colonizzazione dell’America; la prima colonia fu la Virginia, in suo onore perchè era detta “regina vergine”. L’inghilterra sotto di lei ebbe anche una crescita culturale con William Shakespeare, Francis Bacon e molti altri.

Elisabetta, seppure anglicana, era molto aperta alle altre confessioni e alla loro cultura, la sua età fu detta “dell’oro”. Per i cattolici era tuttavia un’usurpatrice.

Durante il suo regno furono poste le basi della futura potenza commerciale e marittima della nazione ed ebbe inizio la colonizzazione dell’America settentrionale.

Fece un secondo atto di supremazia (1559), dopo quello del padre, ricostituendo una maggioranza protestante. Impose un giuramento ove veniva riconosciuto il suo controllo della chiesa. I vescovi ribelli furono rimossi e sostituiti. Con lei ripresero i contrasti con la cattolica Irlanda.

Il fatto che non si sposasse fu molto chiacchierato, il popolo si chiedeva le ragioni, tra le quali prevalsero i timori di subire la sorte della madre e della matrigna Catherine Howard, entrambe giustiziate con false accuse. Si disse anche che avesse paura del parto, giacché due delle sue matrigne ne morirono (Jane Seymour e Catherine Parr).

Fu una sostenitrice delle “guerre di corsa”. Nel 1587 il corsaro Francis Drake sconfisse a Cadice la flotta spagnola di Filippo II, lo stesso avvenne nel 1588, in questo caso l’Invincibile armada dovette soccombere soprattutto a causa del maltempo che imperversò nella Manica.

Nel complesso fu una regina capace, stabilizzò la situazione economica e garantì un periodo di pace. Tuttavia è opinione comune che i suoi successi siano stati sopravvalutati.

Filippo II, figlio di Carlo V e di sua cugina carnale Isabella, entrambi nipoti di Isabella di Castiglia, fu re di Spagna dal 1556 al 1598 – oltre a una serie di altri titoli, tra cui re consorte d’Inghilterra – e 4 mogli, di cui diventerebbe complesso elencare le vicende (in parte dette trattando di Elisabetta).

Anche Filippo ebbe un’importante formazione culturale, si considerava interamente spagnolo e vedeva nella Spagna stessa il centro dell’impero, fatto che gli impedì di succedere al padre come imperatore in favore dello zio Ferdinando.

Come si è già visto per l’Inghilterra, tranne rare eccezioni, le parentele tra regnanti e nobili in genere, erano motivo delle più grandi inimicizie, ostilità e odio.

La vita di Filippo II non fu facile, specie in Spagna, ove il potere della nobiltà e delle Cortes locali era in grado di condizionarlo, inoltre c’erano i fueros, cioè il diritto consuetudinario che anche il re era obbligato a rispettare. Vi erano una serie di pericoli derivanti dalla storia del regno spagnolo in seguito alla riconquista, a causa della composizione dell’esercito, molto territoriale, ma anche dei moriscos, arabi rimasti in Spagna alla fine del loro dominio. Problemi ci furono anche con la riscossione delle tasse, anch’esse in mano alle cortes locali; le entrate cominciarono a dipendere dai flussi provenienti dal “nuovo mondo”. Così sostanzialmente, il Siglo de Oro fu prevalentemente culturale. Insieme ai debiti ereditati dal padre, alle spese necessarie nel vasto regno, la situazione finanziaria toccò il fallimento.

Il re provò a riformare il sistema accentrando molti poteri e appesantendo la macchina burocratica statale. Questa situazione, oltre a creare seri problemi per i suoi successori, creò in primo luogo delle rivolte, prima da parte dei moriscos, costretti a rinunciare alla propria cultura, compresa lingua, onomastica, religione e vistisi dispersi su tutto il territorio. Qualche anno dopo si sollevò la nobiltà aragonese, per la nomina di un vicerè casigliano.

Con la situazione interna retta a stento, in politica estera fu ancora peggio. Improntata la sua politica alla massima ortodossia cattolica, Filippo si scontrò con il protestantesimo olandese cui venne in soccorso l’Inghilterra, fino alla disastrosa sconfitta dell’Invincibile Armada del 1588, nel tentativo di invasione del regno inglese. La debacle era stata preceduta dal tentativo fallito di Filippo di sposare Elisabetta.

Tra i pochi successi che conseguì vi fu la sconfitta dei turchi a Lepanto nel 1571, l’unione dinastica con il Portogallo e il dominio nella penisola italiana a scapito della Francia (entrambi con delle guerre).

Dopo la sconfitta con gli inglesi, che per di più provocò un rilancio del protestantesimo, Filippo II era vicino alla fine. Gli successe il figlio Filippo III e con lui iniziò la decadenza spagnola.

(Storia moderna – 30.4.1997) MP

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PIÙ SERPENTI DI COSÌ!
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Inviato il 27/10/2015 alle 13:42
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UCRONIA. LA SARDEGNA CHIEDE L’INDIPENDENZA DA TORINO

Lezioni condivise 104 – Stati Uniti d’Europa

30 Set 2015 @ 14:19

Se ragioniamo sulle prospettive attuali della Comunità Europea – piuttosto allo sbando, asservita al capitalismo più retrogrado, ammesso che possa esistere un capitalismo illuminato – comunità fittizia ove le nazioni costituenti si fanno la guerra tra loro per curare ognuna il proprio orticello e chi può, alzando la voce e le ricchezze accumulate anche sfruttando sa tontesa degli altri, comanda su tutti, e decine e decine di altre incongruenze, beh… ci sembrerà alquanto strano che nel settembre del 1867 l’anarchico Mikhail Bakunin pronunciasse queste parole “…Al fine di ottenere il trionfo della libertà, pace e giustizia nelle relazioni internazionali d’Europa, e di rendere impossibile la guerra civile tra i vari popoli che compongono la famiglia europea, una sola strada è possibile: costituire gli Stati Uniti d’Europa” e di rimando anche quanto scrisse Carlo Cattaneo “L’oceano è agitato e vorticoso, e le correnti hanno due possibili fini gli autocrati, o gli Stati Uniti d’Europa” e prima di loro, nel 1849 Victor Hugo al congresso internazionale di pace tenuto a Parigi parlò di États-Unis d’Europe. E’ evidente che questo stato federale o confederale era concepito in maniera molto differente da quello che vediamo oggi, dove molti degli stati membri fanno quello che vogliono in disprezzo anche alle regole fondamentali dei diritti dell’uomo, alzano muri e chiudono frontiere, chiedono la “testa” di altri stati membri per non rimetterci neppure un euro e nemmeno un voto.

Abbiamo già introdotto Carlo Cattaneo nella lezione 98. Esaminiamone il pensiero più nel dettaglio.

Il principio federalistico di Cattaneo si basava sul fatto che in Italia vi erano differenze linguistiche, culturali e di vario genere, che rendevano necessaria un’unione forte e solidale, allora inesistente. Ciò evidentemente poteva essere malinteso da chi non conosceva né Cattaneo, né i concetti che andava predicando. Nel caso della Sardegna vi fu un crollo dei valori linguistici derivante da un malinteso senso di emancipazione sociale. La lingua sarda, parlata, ma non conosciuta nella sua grammatica e nella sua storia, se non da pochi, veniva considerata inferiore, rispetto all’aspirazione a uno stato sociale dignitoso.
Per Cattaneo l’elemento linguistico era fondamentale per procedere al federalismo, secondo il modello americano o svizzero: federazione o confederazione.
Si possono individuare quattro fasi del suo pensiero.
Prima fase:
Nel 1848 Cattaneo matura il progetto federalistico in seguito allo scontro tra le truppe di Carlo Alberto e quelle imperiali di Radeski.
Seconda fase:
L’ “Insurrezione”. Paragona l’esperienza veneziana di resistenza agli austriaci (17 mesi) a quella esercitata contro ai turchi. La resistenza costò agli austriaci 20.000 soldati.
“Le piccole città possono insegnare molto, in quanto unite tra loro, possono vincere stati più potenti“.
Le fortezze distrutte dal nemico dovevano essere ricostruite di notte, come si fece con gli ottomani: “un popolo continua la storia dei suoi padri“.
Il centralismo porta all’autocrazia. Le repubblichette italiane sul modello di quelle svizzere dovevano formare l’unione federativa per costituire la repubblica.
III fase:
Polemica con Mazzini sulla necessità della linea unitaria o federalistica.
IV fase:
Necessità del federalismo partendo dalla centralità delle città: egli guardava molto più avanti del momento storico che viveva (si era nel secolo del nazionalismo). Le città secondo Cattaneo avevano funzionato bene fin dal periodo pre-romano. Nel periodo barbarico le città furono abbandonate e si ricostituirono durante il periodo delle invasioni saracene (quando i “colti” erano loro. A sud era diverso, c’erano i Normanni).

Nel 1835 egli aveva iniziato ad analizzare ed elaborare delle tesi sul valore funzionale delle città, che non dipendeva dall’entità demografica o dall’estensione del loro territorio, ma da quanto in esse veniva operato sotto vari profili: burocratici, culturali, scolastici, imprenditoriali, servizi, sanità, religione, banche, ricchezze, circolazione del denaro per creare lavoro terziario, artigianale e operaio. Una sorta di città stato e impresa, città metropolitana ante litteram, che ha un rapporto con il territorio circostante, non grosse città isolate.
La città per Cattaneo è il polo di riferimento di un territorio dove tutto si concentra, serve e si decentra.
La città/municipio era resistita anche alle invasioni barbariche come nucleo di rinascita e solidarietà con la campagna e la nascita dei Comuni medievali.

Intorno al 1848 egli estese la sua riflessione anche alla costituzione delle nazioni moderne nate da lunghi processi, originati fin dal tempo degli etruschi, liguri, greci, celti… che  avevano già dato vita a piccoli nuclei nazionali, legati da etnia, leggi, religione e riprodottisi più nitidamente nell’età moderna e contemporanea, nella quale si forma la fisionomia più o meno attuale, sulla spinta di azioni unificatrici.

Di grande importanza è l’osservazione di Cattaneo sulle lingue nazionali, intese come etnie, popoli. Egli era attento alla formazione delle lingue ufficiali che avevano sostituito il latino. La comunanza linguistica naturale per Cattaneo era un segno distintivo, anche per i “confini naturali” delle singole nazioni e alimentava lo spirito nazionale.
Rovescio della medaglia di questa concezione era invece l’imposizione per legge o norma di una lingua a popoli che ne parlavano un’altra. Mettere alla base le lingue locali era dunque per Cattaneo un segno preciso di appartenenza, una nazione non poteva essere un’accozzaglia di popoli diversi, salvo il caso di una federazione, appunto, questa era la condizione sine qua non perché l’Italia potesse essere una nazione unitaria, senza appendici aggiunte.
Cattaneo era molto pratico e lungimirante a differenza di altri suoi contemporanei anche più influenti che ragionavano con strategie e forza delle armi, egli vedeva nella cultura e nelle infrastrutture la via verso l’unità, scambi, traffici, quindi strade, ferrovie, studi linguistici allo scopo di comprendersi – non per sostituire uno o l’altro idioma – e la cultura prodotta si sarebbe riconosciuta nella letteratura locale “il vero stato degli animi e delle anime” che rispecchiava il vivo delle abitudini, tradizioni, sentimenti dei ceti popolari. Davanti alla poesia regionale “io oso dire che le più terse ed elaborate squisitezze della poesia academica perdono gran parte dell’infecondo lor pregio“.
Lingua ufficiale (allora ancora indefinita) e “dialetti” rappresentavano due piani distinti e comunicanti; erano il riflesso, a livello di espressione e comunicazione, dell’esistenza nella più generale realtà storica, economica, culturale e amministrativa dell’Italia, di un’altra coppia di entità non opposte, ma integrantisi fra loro, la grande e la piccola patria. L’individuazione di questo rapporto non conflittuale tra la patria nazionale e quella regionale o municipale fu infatti un altro degli elementi centrali del pensiero cattaneano come si venne definendo verso la metà degli anni trenta (1836) e che resterà uno dei cardini della sua visione del federalismo nel periodo della maturità. Per Cattaneo vi erano le patrie municipali e la patria comune, entità imprescindibili.

Accanto ai due punti della città e del nesso tra patria nazionale e patria municipale, un terzo elemento essenziale nella definizione delle basi ideali del federalismo cattaneano è quello del valore della libertà degli individui e dei popoli.
Per Cattaneo il valore della libertà individuale era fondante e sovrastava la sfera dell’agire economico e che investiva invece il complesso della società civile.
Già nel 1822 scriveva: “L’uomo in società esercita la sua relativa indipendenza; e in faccia alla natura alla cui rozza influenza si va sempre più sottraendo, e in faccia a’ suoi simili coi quali non è tenuto che ad un ricambio d’offici rimanendo libero disponitore del proprio avere; e in faccia al poter civile il quale non può farselo servo, ma deve egli stesso servire a lui.
(…) Non è libertà la facoltà di bruteggiare e di delinquere, e l’impotenza al mal fare forma il vero trionfo della legale libertà“.

Nel 1839 Cattaneo fondò la rivista Il Politecnico (Repertorio mensile di studi applicati alla prosperità e coltura sociale), nella quale manifestò le sue idee fino a qualche anno dopo l’Unità.

Alla vigilia delle Cinque giornate, si espresse per la formazione di una libera milizia nazionale, con il conseguente allontanamento delle truppe straniere. E subito indicava la prospettiva di un patto federale fra tutte le patrie “libere” e “armate” dell’Impero asburgico, sul modello della Svizzera e del Belgio: “Sì, ognuno abbia d’ora in poi la sua lingua, e secondo la lingua abbia la sua bandiera, abbia la sua milizia; guai alli inermi! Abbia la sua milizia; ma la rattenga entro il sacro claustro della patria, affinché l’obedienza dei popoli sia spontanea e legitima, e quindi debba serbarsi legitimo e giusto il comando. Oltre al limite del giusto non v’è più obedienza.
Queste patrie, tutte libere, tutte armate, possono vivere l’una accanto all’altra, senza nuocersi, senza impedirsi. Anzi, nel nome d’un principio commune a tutte, possono avere un pegno di reciproca fede, un’assicuranza invincibile contro ogni forza che le minaccia“.
Ne “L’insurrection de Milan en 1848” Cattaneo tracciava le linee guida delle sue vedute federalistiche, incentrate sull’ansia della libertà, conseguibile in Italia solo con istituzioni democratiche e autonomistiche. In esso ammoniva gli italiani a non ripetere l’errore commesso nel corso del Quarantotto affidandosi ciecamente ai moderati e al Piemonte regio, rinunciando così alla propria libertà. Ogni stato d’Italia deve rimaner sovrano e libero in sé. Il doloroso esempio dei popoli della Francia, che hanno conquistato tre volte la libertà, e mai non l’hanno avuta, dimostra vero il detto del nostro antico savio, non potersi conservare la libertà se il popolo non vi tien le mani sopra;ma deve conferire alle communi necessità e alle communi grandezze la debita parte”.

Nel 1850 insisteva sull’autonomia dei territori storici già uniformi e non su grandi stati artificiali.
Il numero delle parti non importa, purché abbiano, tutte uguale padronanza e libertà: e l’una non abbia titolo a far servire a sé alcun’altra, tirandola a sé, e distraendola dal nodo generale.
Egli non vedeva di buon occhio le unioni tipo sonderbund (unione dei cattolici svizzeri contro i cantoni protestanti) in quanto socialmente eterogenei e in guerra tra loro. Ne calcolava la consistenza: il borbonico (sud) di otto milioni di abitanti; l’austriaco (territori occupati) sei, e con i ducati, nove; il sardo cinque; il pontificio tre.
Ora, per tenervi sopra le mani, ogni popolo deve tenersi in casa sua la sua libertà (richiama Machiavelli sebbene il contesto sia differente). E poiché, grazie a Dio, la lingua nostra non ha solo i diminutivi, diremo che quanto meno grandi e meno ambiziose saranno di tal modo le republichette, tanto più saldo e forte sarà il republicone, foss’egli pur vasto, non solo quanto l’Italia, ma quanto l’immensa America.

Altri due concetti del pensiero di Cattaneo erano la “nazione armata” con i cittadini-soldati e gli Stati Uniti d’Europa. La difesa doveva dunque essere garantita dal popolo, non da eserciti stanziali, costosi e pericolosi per le sorti della libertà. Mentre i popoli europei dovevano convivere pacificamente nel reciproco rispetto.

Ribadisce altresì, nella sua maturità, il rapporto tra città e campagna. Quando la città cade, sarà poi la campagna a ricostruirla e renderla vitale.

Come è evidente, Cattaneo non condivise l’unità che in Italia venne imposta con la forza delle armi dallo stato accentratore dei Savoia. Era piuttosto per gli Stati uniti d’Italia, affinché quelli esistenti, nella loro autonomia, si unissero in stato federale.

(Storia del risorgimento – 23.4.1997) MP

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UCRONIA: LA SARDEGNA CHIEDE L’INDIPENDENZA DA TORINO
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Michelle
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Inviato il 29/09/2017 alle 10:02
Very good!

MARRANU CHI TI MOVES!

Lezioni condivise 101 – La rivoluzione dei prezzi

30 Giu 2015 @ 11:59 PM

La Storia se la volti e la rivolti può sembrare un’altra storia. A seconda di come la prendi, da questo o quell’avvenimento, da questo o quel tema, dal mare o dai monti, da una donna o da un uomo, da un tetto o da una strada, dalla città o dalla campagna, dal re o dal Popolo, potrebbe sembrare un argomento nuovo, mai trattato, finché si arriva al nodo, che unisce ed esplica.

La Storia non è una questione di apparenze, di opinioni e forse neppure di metodi, anche se da un minimo di regole può scaturire una scrittura più obiettiva, tuttavia non la scrivono le macchine, ma l’uomo e ciò può bastare per comprendere la miriade di variabili che ci si può trovare ad affrontare.

A volte la Summa finisce per essere sommario, pertanto conviene porsi degli obiettivi minimi che altri esamineranno, approfondiranno, confuteranno.

La domanda che mi pongo ora è se la Storia sia un tutt’uno, ovvero, se muova da un centro, o se sia un insieme di motori che, operando nello stesso spazio, vengano a contatto, interagiscano, si separino di nuovo e così via.

La mia risposta, ora, è che le due opzioni non sono in contrasto: i centri da cui muove la Storia possono essere tantissimi, per “semplificare” direi, almeno uno per ogni persona vivente, pertanto è quasi miracoloso che si pervenga a delle sintesi, tante, ma almeno un po’ più circoscritte.

Capisco che il ragionamento potrebbe apparire del tutto specioso, ma nessuna domanda che noi possiamo porci lo è, neppure quelle che possono apparire o sono retoriche.

La rivoluzione dei prezzi nell’Europa del Cinquecento è un fenomeno accidentale o è collegata alla Storia anche non economica del periodo? Domanda appunto retorica. Il disaccordo verte su quali fatti e in che misura abbiano influito, – senza scomodare teorie letterarie considerate in A Sound of Thunder di Ray Bradbury e dal film The Butterfly Effect e per certi versi anche da Source Code e magari altri -; ogni risposta, alla fine, è frutto di un ragionamento individuale, che può diventare collettivo e opinione diffusa, in base a regole sociali, autorevolezza, capacità… argomento inesauribile.

Dall’inizio del Cinquecento e fino al 1620 ca, in Europa, si verificò un progressivo e non congiunturale aumento dei prezzi dei prodotti di prima necessità, cui seguirono avvenimenti ed effetti a catena: carestie, impoverimento, nascita delle officine, abbandono delle campagne, incremento demografico, aumento della domanda, svalutazione monetaria, inflazione, la crisi della corona Spagnola, che si indebitò con i Fugger (banchieri tedeschi), che a loro volta fallirono…

Il sistema economico di allora non prevedeva bilanci di previsione, ma solo consuntivi. Si contava molto sulla prodigalità dei nobili. Con l’inflazione a rimetterci erano i creditori, tenuto conto che i debiti non venivano mai saldati al 100%, erano favoriti gli affaristi, i borghesi. Si corse ai beni rifugio: case, terreni, imprese… Nel mercato si fece tangibile il fenomeno della concorrenza che finiva per favorire la scarsa qualità: ad esempio i tessuti inglesi erano preferiti a quelli italiani, più cari, per la tradizione dei produttori rinomati.

Gli storici si sono interrogati su questa serie di eventi e conclusero che ne fosse causa, soprattutto l’inflazione, prodotta dalla massiccia importazione di oro e argento in seguito alle nuove scoperte geografiche. Inutile dire che esse avranno avuto la loro parte di influenza sugli eventi europei, sull’economia e crisi del Mediterraneo, che dovette subire lo spostamento dei traffici e la decadenza dei porti più influenti, Genova, Pisa, Napoli e Venezia.

Questo collegamento esclusivo ha resistito fino ad epoca contemporanea ed era vero che essendo le monete coniate con i metalli preziosi, perdevano valore, causavano inflazione e aumento dei prezzi. Nella seconda metà del secolo scorso queste tesi furono messe in discussione; si constatò che l’aumento dei prezzi ebbe inizio prima della scoperta dell’America e riguardò soprattutto i beni di largo consumo, come gli alimentari. A causa dell’incremento demografico la domanda divenne superiore all’offerta, che a sua volta era insufficiente, per la scarsità degli addetti agricoli e dei metodi di coltivazione obsoleti.

Queste furono le premesse per la crisi del Seicento, che arricchì i nobili produttori/proprietari, i fittavoli, i mercanti, e impoverì ulteriormente chi viveva di un salario.

Ma come accennavo in premessa ogni avvenimento non può mai essere (o quasi mai, solo per evitare affermazioni assolute) fine a se stesso, è sempre originato da una causa, da più di una causa, una concatenazione di cause, che formano la Storia stessa. Cause prossime e remote, dirette e indirette.

Se volessimo partire da molto lontano potremmo tornare alla fine del Trecento con la decadenza di Costantinopoli e dell’impero bizantino, fino alla sua definitiva caduta nel 1453 per via dell’invasione ottomana, che per secoli minacciò l’Europa e costituì l’imput reale della crisi, con il blocco delle vie tradizionali delle spezie, verso le Indie.

In pochi anni si tentarono vie alternative doppiando il Capo di Buona Speranza e navigando verso occidente. Come sappiamo i paesi più attivi furono Portogallo e Spagna, seguiti da Olanda e Inghilterra e in tono minore dalla Francia. Gli stati italiani disponevano solo dell’iniziativa di navigatori privati e senza mezzi.

I rapporti amichevoli con i nativi americani durarono poco, iniziò presto la colonizzazione e vennero spazzate via civiltà come quelle Atzeca, Maia e Inca, altri popoli meno consistenti resistettero più a lungo, ma alla fine ebbero più o meno la stessa sorte.

Un fatto così epocale, che dà inizio all’Era Moderna, non può non avere avuto contraccolpi in Europa, può sorprendere piuttosto che essi siano negativi. Per questo le ragioni vanno ricercate anche all’interno delle politiche degli stati europei, e al tempo chi condizionava le sorti dell’Europa era la Spagna, in gran parte responsabile della propria decadenza per ragioni alle quali non si diede il giusto peso e soprattutto un peso economico.

Mi riferisco al fenomeno definito della limpieza de sangre, all’inquisizione, alla cacciata di ebrei (1499) e moriscos (1609), atti dei quali non si valutarono le conseguenze: sulla Spagna si concentrò l’odio di tutti i riformatori cattolici, definiti protestanti; la dipartita della ricchezza ebrea impoverì lo stato, mentre quella dei moriscos (eredi degli arabi ricacciati dalla reconquista) e successivamente anche dei conversos mori, tolse braccia determinanti all’agricoltura.

La discriminazione degli ebrei e la loro ghettizzazione è una storia complessa di antica origine, su ogni ebreo veniva fatta ricadere la colpa dell’assassinio di Gesù, il Cristo; mi chiedo sempre come mai tale atteggiamento non abbia interessato anche i romani: è dunque solo un pretesto. Il pregiudizio popolare è quasi sempre guidato dalla politica e dall’economia, capirei di più se esso fosse oggi legato al genocidio dei Palestinesi, ma non è così.

Quando politica e religione, molto colluse nella Spagna dell’epoca (il re aveva poteri sulla nomina dei vescovi), si impossessarono di questo ricorrente pregiudizio, lentamente si diede origine ai Conversos (dal latino conversus, “convertiti”, o Cristianos nuevos), gli ebrei e i musulmani che diventavano Cristiani, una sorta di marchio che ereditavano anche i loro discendenti. Si trattava evidentemente di conversioni di facciata, per convenienza, costrizione o indifferenza religiosa.

In poco tempo si imposero termini meno generici. I convertiti di origine arabo/moresca furono definiti moriscos, o anche mudéjar (corruzione di parola araba che significa “regolarizzato”), riferita in origine ai mori che intesero rimanere in Spagna ed erano autorizzati a praticare la loro religione. La mano della repressione fu in sostanza meno dura con gli arabi, messi di fronte alla scelta di convertirsi o andare via. Gli ebrei furono perseguitati anche dopo la “conversione”, in sostanza non vennero mai considerati davvero Cristiani, i più continuarono a praticare l’ebraismo di nascosto, finendo sotto i ferri dell’inquisizione. Per i conversos ebrei fu adottato il termine di marranos, dall’ebraico marah, ribelle, che desemantizzato ha assunto un significato molto dispregiativo. Ancora oggi, nella lingua sarda, il neologismo di un tempo, viene usato come forma di monito del tipo “Sei un marrano se fai questo o quello…”, senza che ci si chieda da dove venga la parola marranu.

La storia dei marranos è molto complessa, essi solitamente ricchi e influenti talvolta riuscivano ad infiltrarsi nelle maglie del potere e della chiesa, fino ad annoverarsi tra i santi (Santa Teresa d’Avila) e addirittura nell’inquisizione (si vocifera dello stesso Torquemada). Molti di essi si rifugiavano in convento.

Se ne descrivono tre categorie: quelli zelanti – che per dimostrare il loro distacco perseguitavano gli ebrei o li disprezzavano pubblicamente -, quelli falsamente convertiti e quelli costretti a forza che non abiurarono.

Vi erano addirittura epiteti ingiuriosi locali: in Catalogna haram (vietato), riferito al fatto che non mangiassero carne di maiale o xuetes, nelle Isole Baleari, dalla mistura con carne di porco che veniva consumata in pubblico per dimostrare la sincerità del loro cattolicesimo, mentre gli ebrei rimasti tali li chiamavano anusim (costretti), posizione indulgente; mentre per la chiesa ebraica, in molti casi complice della persecuzione, erano meshumadim (ebrei apostati).

Le cronache del tempo sono piene di episodi in cui, per futili motivi, si fa strage di marranos; talvolta fu l’autorità pubblica a dover intervenire in loro difesa, in questo senso maggiori furono le tutele in Portogallo. Ciò provocò l’abbandono della penisola iberica da parte di molti conversos, che cercarono asilo in stati europei più tolleranti, come la Francia, l’Olanda e alcuni stati italiani.

Non sembri strano dunque che parte delle vicende economiche e non che viviamo oggi, come fu per la rivoluzione dei prezzi la crisi dell’impero bizantino, trovino la loro origine nelle politiche iberiche di Cinque e Seicento, in altre parole, i nostri comportamenti oggi riguardano anche le generazioni future e ciò deve essere uno stimolo per contrastare l’imbarbarimento della politica globale.

(Storia moderna – 23.4.1997) MP

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RIFLESSIONI SULLA RELIGIONE

Lezioni condivise 98 – La chiesa anglicana

31 Mar 2015 @ 11:00 PM

C’è stato un tempo in cui chi si poneva domande sulla religione veniva messo al rogo dopo aver subito crudeli torture. Da qualche parte accade ancora, visto che dagli anni ottanta del secolo scorso, è come se la storia avesse deciso improvvisamente di tornare indietro e oggi in questo mondo “globale” viviamo tra regresso economico, disuguaglianze e l’incubo di una nuova barbarie.

Sarebbe ingiusto e anche falso se affermassi che l’inciviltà e la ferocia umana, siano sempre state causate dalla religione. Nazismo, fascismo, l’olocausto dei nativi americani o degli armeni e tante altre nefandezze simili, molte delle quali sconosciute o taciute, sono da addebitare a “stati” cosiddetti laici.

Tuttavia vorrei sapere se esiste, a parte qualche rara eccezione minoritaria, qualche religione che non abbia compiuto nella sua storia qualche grossa nefandezza, per di più di senso opposto a quello che andava e va predicando.

E’ un modo un po’ sconvolgente di presentare la chiesa anglicana, che peraltro non è storicamente tra quelle più cruente, benché importanti roghi li abbia accesi anch’essa. Ma questa chiesa è abbastanza funzionale al mio ragionamento ricorrente su tante religioni ed è sintomatica del fatto che sovente si invoca la “fede”, contro il ragionamento, in modo che le magagne anche più palesi restino nell’oblio.

Una religione dovrebbe avere origine divina, mi si spieghi perché iddio improvvisamente avrebbe deciso di mettere a capo di essa Enrico VIII, come per un nuovo popolo eletto, quello inglese… un aspetto che sa di burocrazia e stona con la divinità, sette secoli dopo Carlo Magno.

Lo stesso ragionamento vale per la miriade, tra sette e grandi confessioni, in cui si è frazionato il Cristianesimo, ognuna di esse, come Enrico VIII, invoca l’intervento divino, e così la scelta religiosa non è più un fatto di fede, ma di confini geografici, a seconda che si sia nati in Russia, Germania, Spagna o nei paesi arabi, in India, Cina e via dicendo. Perché il discorso non vale solo per il Cristianesimo. Avete mai sentito parlare ad esempio di sunniti e sciiti?

Se una Fede si deve avere, deve riguardare l’origine di essa, non le trasformazioni fatte degli uomini… E la parola Fede dovrebbe essere sinonimo di pace, carità, fratellanza, uguaglianza, libertà, non come è stata per secoli e ancora oggi equivalente di tutto il contrario.

Ma la storia della riforma anglicana è davvero esemplare perché il movente ufficiale che ne decretò la nascita fu il rifiuto di un papa a concedere il divorzio a Enrico VIII. Fatto abbastanza paradossale.

E’ vero che i “papi” di quello e altri periodi hanno concesso a re, principi e imperatori, ai potenti insomma, la possibilità di compiere nefandezze ben più gravi di un divorzio, anche se il nostro caro Enrico ha esagerato, salvo aver dato modo a Rick Wakeman, tastierista degli Yes di comporre il capolavoro The Six Wives of Henry VIII.

Enrico VIII fu il secondo re della dinastia Tudor, quella nata dalla guerra delle due rose, sanguinosa lotta dinastica combattuta in Inghilterra tra il 1455 ed il 1485 tra due diversi rami dei Plantageneti, eredi di Edoardo III: i Lancaster (rosa rossa) e gli York (rosa bianca).

Fu Enrico Tudor (Enrico VII) a porre fine alla guerra nel 1485. Lui, erede della casa di Lancaster sposò la figlia primogenita di Edoardo IV, Elisabetta di York. I loro figli Arturo e il secondogenito Enrico divennero così legittimi eredi al trono inglese per nascita e sangue senza più possibilità di contestazioni.

La guerra causò la scomparsa di tante famiglie nobili e di conseguenza generò uno stato molto ricco e potente. Così Enrico VIII quando ebbe la necessità di sciogliere il matrimonio con Caterina D’Aragona non si fece scrupoli a chiederlo al papa e a ingaggiare tutto il braccio di ferro che ne conseguì, fino alla separazione della Chiesa d’Inghilterra da Roma con l’atto di supremazia del 1534, contro il rifiuto di Clemente VII di sciogliere il suo matrimonio per sposare Anne Boleyn.

Non vi era alcun motivo di dissenso religioso con il Cattolicesimo a giustificare questa decisione. E neppure per il papa vi erano motivi religiosi, piuttosto il piccolo particolare che Caterina era zia di Carlo V. Enrico VIII accusò il papa di ingerenza negli affari inglesi e fece un primo passo verso la nazionalizzazione religiosa.

Il papa non si decise a scomunicare Enrico VIII, lo dichiarò solo e confermò Caterina D’Aragona regina. Tra l’altro le dichiarazioni antipapali non venivano dichiarate eresia.

Questa situazione trovò nel Paese terreno abbastanza fertile, perché circa 50 anni prima John Wycliffe, riformatore religioso, mostrò già la sua opposizione a Roma, al potere del Papa e degli ecclesiastici. Tuttavia gli inglesi erano anticlericali, ma non anticattolici. Si opponevano alla tassa sui funerali e ad altri aspetti estranei alla fede… Le entrate ecclesiastiche rappresentavano 1/7 delle entrate inglesi, i preti venivano visti come una sorta di agenti delle tasse della curia romana.

La vicenda delle nozze tra Enrico VIII e Anna Bolena fu piuttosto complessa e piena di clamorosi colpi di scena.

Nonostante dichiarazioni e atti, la corte inglese rimase attenta alle formalità e alle norme religiose, per superare le quali si ricorse ad espedienti e cavilli, anche contraddittori.

Inizialmente Enrico VIII si rifece al Levitico 20,21 – che proibisce il matrimonio con la vedova del fratello (Caterina d’Aragona era vedova di Arturo, fratello di Enrico VIII Tudor) – perché venisse dichiarato nullo il suo matrimonio – per celebrare il quale fu però invocata la dispensa papale (Giulio II) – con il pretesto che il matrimonio non era stato consumato. Ora tale dispensa veniva giudicata illegittima (nemmeno un papa poteva eludere la Bibbia) e si fece di tutto per dimostrare che invece il matrimonio era stato consumato,  e Caterina si difendeva con forza.

Ovviamente dietro tutte queste manfrine vi erano interessi di potere e il desiderio di Enrico VIII di avere dalla Bolena un erede maschio.

Nasceva così the great matter. La difesa di Caterina non se ne stava con le mani in mano. Fu trovato nel Deuteronomio 25:5, libro biblico successivo al levitico, un precetto esattamente contrario, ovvero che è dovere di un cognato sposare la moglie vedova del fratello quando non abbiano avuto figli, perché non vada in sposa a un estraneo.

A complicare le cose c’era il fatto che Clemente VII era prigioniero di Carlo V, nipote di Caterina e difficilmente poteva intervenire contro di lei. Così il papa agì in modo da scontentare tutti e nessuno, non concesse l’annullamento, ma solo la dispensa (1527) che senza il primo non poteva essere utilizzata.

Parte di queste vicende furono oggetto di un lungo processo e congiure. Nel 1529 fu destituito il cardinale cancelliere e sostituito da Tommaso Moro, che però si dimise nel 1532, alla vigilia della rottura definitiva con la chiesa cattolica. Essa fu voluta proprio dalle pressioni e dalla potenza di Anna Bolena.

La rottura definitiva si ebbe nel 1532 con la celebrazione delle nozze segrete e subito dopo con le nozze ufficiali (1533) e l’atto di supremazia (1534). Anna non fu accettata dal popolo inglese che amava Caterina.

Eppure le divergenze sia a livello popolare, sia da parte di un cattolico inglese come Thomas Moore, seguace di Erasmo, erano la lontananza della gerarchia romana dall’ortodossia cattolica, per corruzione, mondanità e ingerenze negli affari nazionali inglesi per ragioni di natura economica.

L’anglicanesimo ondeggiò tra protestantesimo e cattolicesimo, se ne discostò sempre per ragioni extra religiose: la minaccia di Paolo III di mettergli contro un’alleanza tra l’imperatore Carlo V e Francesco I, re di Francia; ma fu un continuo allontanarsi e riaccostarsi, fino all’avvicinamento al calvinismo, per opportunità di indipendenza politica, sancito da Elisabetta I e valido ancora oggi.

Enrico VIII salito al trono nel 1509 all’età di 18 anni, era stato fedele al cattolicesimo tanto che papa Leone X gli conferì il titolo di Defensor Fidei. Il papa Clemente VII reagì invece all’atto di supremazia con la scomunica.

Edoardo VI, re minorenne (figlio della terza moglie Jane Seymour), tramite lo zio reggente Edoardo Seymour, introdusse il rituale del Prayer Book (libro di preghiera), al quale il Parlamento conferì forza di legge. Inoltre venne negato il carattere sacrificale della messa. Sul piano dottrinale venne pubblicata una nuova professione di fede contenuta in 42 articoli di ispirazione calvinista approvati dal re nel 1553.

Figura importante, come accennato, nell’ambito della querelle fu Tommaso Moro. Egli nacque il 7 febbraio 1477. Negli anni dal 1492 al 1500 si dedicò agli studi giuridici e nel 1499 conobbe Erasmo da Rotterdam al quale rimarrà legato da una profonda amicizia. Non condivise le decisioni di Enrico VIII sul divorzio dalla regina Caterina, avendo ben compreso a quali conseguenze avrebbe portato. Fu sottoposto a interrogatorio e il 1 luglio 1535 condannato a morte per “avere parlato del re in modo malizioso….e diabolico”. Si oppose alle illustrazioni nella Bibbia, in quanto avrebbero portato all’eresia. Ciò confermava la possibilità della fruizione della Bibbia da parte dei ricchi (che potevano leggere il latino), mentre i poveri si dovevano affidare ai predicatori. La sua figura per certi aspetti mostra delle ambiguità. Nel 1536 la Bibbia fu tradotta in inglese, ma non tutti sapevano leggere.  Il 6 luglio alle 9 venne decapitato e non impiccato, come avrebbe voluto l’accusa di tradimento, per intercessione del re. Per condannarlo si dovette ricorrere alla falsa testimonianza di tale Rich che verrà, qualche tempo dopo ricompensato con il titolo di Lord. Fu proclamato beato da Leone XIII e santificato il 19 maggio 1935 da Pio XI.

La nuova regina, Maria Tudor (1553-1558), figlia di Enrico VIII e di Caterina d’Aragona, che era rimasta fedele al cattolicesimo, tentò di restaurare l’antica fede, ma cadde in disgrazia per il suo matrimonio con Filippo II di Spagna e la persecuzione dei protestanti, che gli valsero il soprannome di Maria la sanguinaria.

Con la salita al trono di Elisabetta (1558-1603), figlia di Enrico VIII e sorellastra di Maria Tudor, il protestantesimo si affermò definitivamente in Inghilterra. Nel 1559 con un’apposita legge, che faceva della regina il supremo governatore della Chiesa d’Inghilterra, fu rimesso in vigore l’abrogato Atto di supremazia del 1538. Nello stesso anno fu promulgato un nuovo Atto di uniformità che prescriveva il ritorno all’uso liturgico del Prayer Book, modificato su due punti rispetto all’edizione precedente: viene soppressa ogni formula scortese nei confronti del papa; si afferma la presenza reale di Cristo nell’eucarestia. Questo ritorno alla riforma fu ben accolto sia dal popolo che dal clero, ma non dai vescovi che rimasero, tutti ad eccezione di uno, fedeli alla Chiesa di Roma.

Nel febbraio del 1570 Elisabetta fu scomunicata da Papa Pio V, ciò provocò la rottura tra i cattolici (i papisti) e protestanti, tanto che i cattolici furono considerati nemici dell’Inghilterra, considerati dei ribelli e perseguitati.

Dall’11 novembre 1992, la Chiesa anglicana ha ammesso il sacerdozio femminile.

(Storia moderna  – 18.4.1997) MP

metodologia citazione testi: autore, titolo, edizione, luogo, data.

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LA RETORICA ITALIOTA, VE LA REGALO…

Lezioni condivise 94 – Le ideologie del risorgimento

30 Nov 2014 @ 11:58 PM 

La propaganda dei “moderati” penetra nella gente come l’edera negli interstizi, così da sempre ci portiamo dietro dei luoghi comuni che è arduo estirpare.

L’errore della “sinistra”, da tempo, è inseguire questa categoria inesistente sul suo terreno, con il risultato che non c’è più sinistra, o almeno non c’è più come una volta. Sintetizzo il concetto.

Per questa ragione e per esperienza, diffido di chi si definisce “moderato” o anche “riformista”, perché in realtà so di avere a che fare con dei reazionari e in alcuni casi anche peggio.

Tre anni fa una parte di italiani, o forse è il caso di dire, una minoranza di italiani, ha festeggiato, anche con sfoggio di armamenti, i 150 anni di unità dello stato; unità che in realtà è sempre stata solo sulla carta sotto quasi tutti gli aspetti e che con il passare degli anni si è indebolita sempre più. Si è fatto sfoggio di retorica a più non posso, robe che non si vedevano più dai tempi del fascismo o dal neofascismo missino. Il cosiddetto “risorgimento” italiano è stato l’opposto della Rivoluzione francese ed è palese se si confrontano, ammesso che si possa, gli stati che ne sono scaturiti.

I valori della Rivoluzione non hanno mai attecchito in Italia, perché questo fantomatico “risorgimento” non è stato altro che la conquista di territori da parte della monarchia sabauda e dei suoi seguaci conservatori, anche se talvolta portavano la camicia rossa.

Certi storici si sono fatti in quattro per cercare di far passare un’anima almeno “democratica” del risorgimento, ci hanno provato in buona fede anche i partigiani, forse meno in buona fede il PCI. La mettano come vogliono: il risorgimento italiano puzza di monarchico, di vecchiume, di oscurantismo…

L’ho già detto nelle lezioni precedenti, l’argomento non mi appassiona; per quanto si cerchi di trovare qualche elemento positivo, si trova ben poco e marginale, nonostante su alcune figure si sia pompato parecchio, perché è evidente che a tanti non fa piacere avere questo “risorgimento” così culturalmente futile.

Siccome di demagogia se ne è fatta a bizzeffe, non mi unirò certo anch’io al coro; Cavour, Garibaldi e i Savoia, diventati re a spese della Sardegna, fateveli raccontare da qualcun altro. Quello del risorgimento è certo un periodo storico raccontato male; per favorire l’enfasi patriottica si è taciuto su tanti fatti che metterebbero le cose in una luce diversa e in alcuni casi si è fatta un’operazione di mistificazione, ascrivendovi fatti che con esso non hanno nulla a che vedere, relativi all’ordinaria lotta contro l’oppressore nei singoli stati, ora nelle Due Sicilie, ora in Veneto o nello stato Pontificio.

Gli “artefici” del  risorgimento, propagandato dal regime fascista e post-fascista come avanzata eroica dei garibaldini, si sono macchiati di crimini paragonabili a quelli che oggi compie il sedicente califfato islamico tra Iraq e Siria. Paesi campani, tra cui Pontelandolfo, Casalduni, Campolattaro, Auletta, sono stati rasi al suolo dal generale piemontese Enrico Cialdini, i partigiani (briganti) massacrati, le donne violentate, e del nome di questo signore e altri criminali come lui sono piene le vie di paesi e città.

Il rosso camiciato Garibaldi che incontrava baroni e notai e li riempiva di doni piemontesi, derubava la povera gente per sfamare le sue truppe. Questi e altri atti provocarono negli abitanti del sud la comprensibile reazione; i contadini si unirono ai briganti per resistere agli occupanti, una resistenza di cui i libri di storia tacciono, come del massacro dei partigiani caduti sotto le imboscate di garibaldini e piemontesi, uno per tutti il caso di Venosa in Lucania, con tre fratelli giudicati disertori, uccisi e gettati nella piazza del paese come monito. O che dire della tragica giornata del 6 agosto 1863, quando lo sciopero degli operai di Portici, costretti a lavorare 12 ore al giorno, furono soffocate nel sangue dai bersaglieri!

Lo stato ha sempre parlato di questione meridionale senza mai risolverla, ha sempre considerato le regioni a sud della linea gotica e soprattutto quelle più meridionali, come territori conquistati, li ha impoveriti, assoggettati a ruberie e privati anche della possibilità di reagire; l’ignoranza e la propaganda nelle scuole hanno fatto il resto, così che questi nemici dell’Italia, si considerano più italiani di quelli che in realtà lo sono per definizione. Un drammatico paradosso.

In questo scenario salvare qualcosa del risorgimento diventa un’operazione piuttosto complessa e quel poco che c’è non è ascrivibile ad esso, perché riguarda chi quella battaglia l’ha persa.

Le rivolte giacobine spontanee, quelle delle popolazioni affamate, le insurrezioni cittadine, tutto viene messo insieme dalla propaganda di stato in quello che viene definito risorgimento: ecco dove bisogna riscrivere la storia.

Episodi pochi, qualche uomo, ma raramente integro del tutto, forse l’unico è Carlo Cattaneo. Egli tra i pochi illuminati del tempo, era come tale molto avanti, un radicale, di sinistra, protagonista delle “cinque giornate di Milano” e fondatore della rivista “Il politecnico”; le sue teorie politiche erano originali e anticonformiste, federalista tra fitte schiere di centralisti, europeista e cosmopolita, in mezzo a nazionalisti, avvicinato agli anarchici, era attento a che la rivoluzione non diventasse distruzione, ma costruzione di uno stato giusto. Avversava dunque il conservatorismo dei ceti aristocratici e anche il moderatismo prevalente tra i liberali, in nome di un radicalismo progressista che rientrava nelle esigenze della moderna borghesia produttiva, classe autenticamente “rivoluzionaria” nell’Italia arcaica e rurale dell’epoca.

Chi altro salvare, Mazzini? Si è parlato tanto di lui in questi anni, qualcuno si è spinto a definirlo estremista, terrorista, forse perché nell’equazione con se stesso risultasse almeno qualcosa di “progressita”, ma Mazzini emerge in questo senso solo perché tutto il resto era più reazionario che si potesse. Impelagato in veti di coscienza, fondò infine una società segreta (la Giovane Italia) che ebbe solo importanza nominale. Fu arrestato, ma non costituì mai un efficace pericolo per la monarchia, tormentato da dubbi infiniti tra democrazia e populismo. Queste sue posizioni lo allontanavano dalle classi popolari e dall’azione in sé. Non riuscì mai a incidere e fu sopravvalutato anche dai suoi nemici.

Per una qualche completezza riguardo a quanto si muoveva in quel periodo cito anche il neoguelfismo, che caldeggiava uno stato sotto la guida della chiesa; l’esponente più in vista fu Gioberti (dopo varie peregrinazioni qui e là), ve lo regalo.

Santorre di Santarosa, rappresenta forse la sintesi dei personaggi del risorgimento, totalmente invischiato nella monarchia (tanto da essere ministro sotto Carlo Alberto), pensava di poter far accettare ai Savoia una monarchia costituzionale, poi perseguitato da Carlo Felice per questo,  morì in esilio partecipando alla rivoluzione greca. Né carne, né pesce.

Nel periodo cosiddetto risorgimentale in realtà accaddero cose molto più importanti, come la nascita della classe operaia e dell’ideologia socialista, la sociologia con Comte, come sviluppo del positivismo.

Con il socialismo nacque immancabilmente anche il riformismo, dovrei dunque riallacciarmi all’inizio, invece provo a succhiare due cose serie dall’ideologia riformista, che è cosa diversa dai riformisti, specie quelli odierni.
La definizione è pessima (vedi Bobbio). In realtà il riformismo nasce in ambito socialista, non come ideologia alternativa, ma unicamente come metodologia per realizzare il socialismo.
Con il tempo ci hanno messo mano in tanti, allontanando di molto l’obiettivo iniziale, ma il fatto positivo e realista, quanto utopico, è arrivare al socialismo gradualmente, secondo un processo democratico, dunque costruttivo e non distruttivo, che non sia a scapito della libertà – dunque preveda la possibilità di disobbedienza (Fromm) – e dell’uguaglianza (Jean-Jacques Rousseau).
Anche la critica, tanto osannata, della tradizione marxista, è soltanto la premessa del fare riformista, non ne è il contenuto; proprio perché il riformismo è soprattutto fare, piuttosto che contestare.
Gilles Martinet ha teorizzato il riformismo rivoluzionario, riforme politiche in stretta sintonia con l’azione di massa nelle fabbriche e nella società.

Più su ho citato l’utopia, comunemente considerata sinonimo di irrealizzabile, ma non l’ho usata in questo senso. Per Bronislaw Baczko, le utopie esprimono immagini-guida, idee-forza, talvolta verità premature, utili a mobilitare energie collettive e ad orientarne le speranze.

(Storia del risorgimento  – 7.4.1997) MP

Commenti (1)

La retorica italiota, ve la regalo…
1 #
Edwarda
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jeffy@gmail.com
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Inviato il 26/02/2015 alle 05:31
Anything in life can be accomplished by waiting on hold firmly to a
certain objective.

NUESTRAS ESPERANZAS EN LOS MEJORES

Lezioni condivise 93 – Il sistema polisinodial della Corona spagnola

31 Ott 2014 @ 11:57 PM

Occuparsi di particolari argomenti del passato, noti solamente a una numerosa minoranza di storici e studiosi, è “ragionevole” che suoni ai più una perdita di tempo (un po’ come a Lolita la poesia di Edgar Allan Poe), ma conoscere la storia è utile per capire il presente; se dessi retta al mio sano estremismo, direi che la storia è il presente stesso, presente che, non conoscendo essa, non potremmo comprendere.

Tutto ha ragione di essere conosciuto. Lo stato odierno del continente americano, ad esempio, non è prodotto di magia. In un tempo relativamente breve, rispetto al complesso della storia, sono scomparsi popoli, avvenute rivoluzioni, eccidi di ogni tipo; i “migranti” europei che hanno occupato il continente, si sono presi la libertà di fare di quelle terre i loro campi di battaglia, per conquiste, annessioni,  innalzamento di steccati e ogni altra nefandezza.

Capire quanto è avvenuto in America, dopo la “scoperta”, presuppone la conoscenza della storia europea.

La Spagna, che a parte il Brasile, il Canada e la quasi totalità degli USA, colonizzò tutto il resto del continente, usava esportare i propri ordinamenti, controllare i propri coloni come fossero ancora in Europa, vi trasferì perfino l’Inquisizione.

La Reconquista contribuì al superamento dell’aspetto “patrimoniale” (privato) del regno e favorì l’affermazione del carattere nazionale, centralizzatore e protettivo del dominio politico.

Dopo le nozze di Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia (1469) si realizzò la ristrutturazione amministrativa in senso burocratico polisinodale.

Nacquero i Consejos che erano nello stesso tempo, organi di consulta, corti di giustizia, tribunali amministrativi e si distinguevano su base territoriale e per competenze specifiche.

Le rappresentanze degli ordini medievali (le Cortes), nonostante l’unificazione territoriale, continuarono a esistere nei rispettivi regni della Corona, ma erano sempre meno consultate.

La Spagna esercitò un rispetto relativo per l’autonomia dei Reinos, garantendo alcuni ordinamenti giuridici particolari. L’Aragona, per dirne una, conservò un sistema costituzionale fondato sull’idea di contratto (il pactismo aragonese).

I principali Istituti statali venivano esportati in tutti gli stati della Corona, dove poi si adattavano a situazioni contingenti, creando talvolta curiosi effetti, come per gli alcadi in Sardegna, comandanti delle torri litoranee, mentre in Spagna erano i sindaci dei comuni.

Il sistema polisinodial si sviluppò tra il XVI e il  XVIII secolo, basato su una pluralità di consigli, tavole, e altri organismi collegiali che esercitavano funzioni legislative, giudiziarie, ma anche esecutive.

I Consejos (Consigli Supremi) erano vari, derivavano dal Consilium o Curia Regis dei primi regni medievali, ove godevano di notevole attenzione riguardo alle decisioni politiche, insieme con l’Auxilium (ordine militare).

Nel XIV sec. all’apice dell’ordinamento vi era il Consiglio reale di Castiglia. Per analogia nacque il consiglio di Aragona e man mano tutti gli altri, specie dopo l’apparentamento con gli Asburgo e l’ingresso di altri territori nella Corona.

Tra i consigli territoriali grande importanza assunse il Consiglio delle Indie. Aveva giurisdizione suprema in tutte le questioni relative a terra e mare del Nuovo Mondo, militarmente e politicamente, in pace e in guerra, in materia commerciale, civile e penale. Avanzava proposte per la nomina del viceré e delle altre cariche.

Gli altri consigli erano quelli d’Aragona (con giurisdizione su Catalogna, Valencia, Maiorca e Sardegna, e fino al 1555 Napoli e Sicilia), d’Italia (fu istituito da Filippo II per la gestione dei territori italiani della corona spagnola, Napoli, Sicilia e il Ducato di Milano), delle Fiandre (Paesi Bassi e Borgogna) e del Portogallo (istituito nel 1582, continuò ad esistere anche dopo l’indipendenza portoghese e venne sciolto solo dopo il trattato di Lisbona del 1668).

Il Consiglio di Statosupraterritorial, si occupava delle questioni di politica estera più importanti, e di quelle relative al re e alla famiglia reale. Iniziò a operare nel 1526, quando Solimano il Magnifico minacciò l’Austria. Era presieduto direttamente dal re e fungeva anche da Consiglio di guerra.

Il Consiglio dell’Inquisizione (1478), presieduto dal Grande Inquisitore, sorse di fatto per rafforzare l’unità del paese e difendere l’ortodossia religiosa sorvegliando le coscienze; in origine doveva esaminare i ricorsi dei condannati, ma presto prese in carico questioni di competenza dei tribunali locali, fino a prendere il sopravvento e avere un ruolo centrale.

Il Consiglio di Crociata, fu creato per gestire i tre diritti concessi dal papato: di cruzada, el subsidios y el excusado, per la difesa della fede cattolica e la guerra contro gli infedeli. Tali diritti (non era più tempo di crociate in terra santa) erano le tasse principali per il finanziamento delle casse reali.

Il Consejo de las Órdenes (consiglio degli ordini) gestiva il mayorazgo dell’ordine di Calatrava – che nel 1489 il papa affidò a Ferdinando – e successivamente gli ordini militari di Santiago nel 1493 e Alcantara (o di Montesa) nel 1494. Il consiglio amministrava beni e cavalieri, ma finì per diventare una sorta di Corte d’Onore per garantire la limpieza de sangre.

Il Consejo de Hacienda (consiglio delle finanze, 1523) era la semplificazione della Hacienda castellana (il tesoro spagnolo); aveva due contabilità separate (la Major e de Cuentas), che si controllavano vicendevolmente. Erano in attrito continuo con gli altri Consigli, di cui controllavano i conti.

Consejos de Cámara (consigli camerali) erano competenti in materia di nombramientos, gracias y mercedes (nomine, grazie e favori).

La Real Audiencia (Real Udienza) era un organo di giustizia. La prima audiencia venne fondata a Valladolid nel 1371, sotto il regno di Enrico II e fu per due secoli il massimo organo di giustizia della Castiglia. Dopo la renconquista di Granada nel 1492, l’audiencia venne divisa in due: quella di Valladolid con potere nella zona a nord del fiume Tago e quella di Granada con competenza a sud del fiume.

Sotto il regno di Carlo V il sistema dell’audiencia venne esteso al resto della Spagna, in Sardegna (1564-1847) – dove continuò a funzionare fino alla fine del Regno –  e nel Regno di Sicilia (1569-1707).

La prima audiencia nelle Americhe venne creata nel 1511 a Santo Domingo, e seguirono Messico, Panama, sud America e Filippine.

Municipios erano l’unità amministrativa locale primaria con a capo l’alcalde (alcaide o àlcade). Era un’istituzione di origine musulmana, con funzioni amministrative e giudiziarie, introdotta nei regni di León e di Castiglia nell’XI secolo e generalizzata poi in Spagna e nelle sue colonie. Il nome deriva dall’arabo al-qadi, che significa giudice.

La Casa de Contratación fu fondata nel 1503 a Siviglia per il controllo del monopolio del traffico con le Indie, la custodia e l’aggiornamento del Padrón real (1508), sul quale venivano registrate le nuove scoperte. Nel 1717 venne trasferita a Cadice. Attirava constantemente commercianti, artisti e persone in cerca di fortuna.

La Spagna, stando agli esiti attuali, penso sia seconda solo all’Inghilterra come protagonista delle brutture che hanno interessato il continente americano.

La storia non è un sortilegio, ma è condizionata dalle scelte di coloro che si elevano a padroni della terra. Gli ordinamenti prodotti da questi individui hanno veicolato quella che è ora l’America, perfino gli infiniti veti USA contro la Palestina.

Continua a prevalere la legge del più forte e il più forte è quasi sempre il peggiore; quando non lo è, lo diventa o viene eliminato. Riponiamo tuttavia le nostre speranze sui Migliori e che la Resistenza non abbia mai fine.

(Storia moderna  – 7.4.1997) MP

Commenti (1)

Nuestras esperanzas en los Mejores
1 #
Edwarda
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Inviato il 15/02/2015 alle 06:28
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