TRADIRE E TRADIRE

31 luglio 2016 @ 21:54

Lezioni condivise 114 – Hamlet e la traduzione 

Avventurarsi nell’universo della traduzione è un po’ come entrare in un campo minato, come sfidare l’Idra di Lerna o per un altro verso rischiare, filosofeggiando all’estremo, di far cadere illusioni: “Ho letto tutto Dostoevskij”. Ma quale Dostoevskij? in che lingua? tradotto da chi? Per leggere Dostoevskij occorre davvero conoscere il russo? Non basterebbe comunque! …Continuando di questo passo ci si aggroviglierebbe in una Babele di concetti senza via d’uscita.  

Questo non significa che l’argomento non abbia un peculiare interesse e non debba essere trattato. Siamo, come sosteneva Walter Benjamin tra filosofia e letteratura. Il termine Babele rende l’idea in un’accezione positiva e affascinante.

Qualsiasi lettore sarà venuto certamente a contatto con una pubblicazione mal tradita e avrà avuto la possibilità di sbalordirsi perché non rispecchiava affatto quanto appreso dalla critica sia sul testo sia sull’autore.

Da adolescente fui notevolmente impressionato da traduzioni dall’inglese di parole di brani musicali, alcune banali, altre improbabili o di un ermetismo surreale… Non che un testo inglese non possa essere banale, incongruo o ermetico, ma il più delle volte si tratta di una traduzione errata, perché eccessivamente letterale e siccome ogni lingua fa parte a sé e ha la sua ricchezza, non è tutto così piatto.

Per trasporre un testo da una lingua a un’altra, almeno nelle traduzioni importanti e serie, occorre avere buona padronanza di entrambe le lingue, ma anche conoscenza della cultura in cui quelle lingue inferiscono, non semplicemente conoscere il vocabolario e qualche nozione di grammatica e tuttavia, un testo tradotto/tradito in un’altra lingua non sarà mai quello che si potrebbe leggere nella lingua originale; per poterne rendere in modo accettabile la comprensione, o come dire, per effettuale un fedele tradimento, occorre un passaggio semantico, semiotico, storico… un’operazione non facile e comunque mai assoluta.

Il mercato è pieno di libri tradotti male, molti di essi già complessi in sé, diventano di proibitiva comprensione…

La traduzione non è un’arte facile. George Steiner (1929) in Dopo Babele – Aspetti del linguaggio e della traduzione, scritto con Walter Benjamin (1892-1940), ha dato importanti indicazioni in merito. Intanto ha stabilito la differenza tra il tradurre e l’interpretare. Babele è il simbolo della genesi della pluralità linguistica. Un confronto tra lingue deve partire dall’individuazione delle reazioni interattive rispetto a retorica, storia, critica della letteratura, linguistica e filosofia linguistica.

La traduzione è insita in ciascun atto comunicativo, essa rappresenta un crescendo di difficoltà, che ha inizio nella semplice comunicazione tra individui che parlano o scrivono la stessa lingua, comunicano con gli stessi segni, ognuno di essi ha il suo idioletto, ogni uomo, di base, ha un suo linguaggio.

Pensiamo alle lunghe discussioni che a volte si verificano anche in seguito a una comunicazione semplice; significa che si hanno gli strumenti per comunicare e dibattere, ma che si hanno difficoltà a capire, decifrare, tradurre, anche se si dialoga nella stessa lingua convenzionale.

Questo genere di difficoltà si risolvono con l’ermeneutica (esegesi, spiegazione), un metodo empirico in quattro tempi: spinta iniziale – aggressione – incorporazione – reciprocità o restituzione. La comprensione di un testo deve tener conto di tutta una serie di variabili linguistiche (in parte già viste nelle lezioni di Filologia romanza e Linguistica sarda), quelle spazio-temporali (diatopiche e diacroniche), ma anche relative alla condizione (distratiche), al mezzo (diamesiche), alla situazione (diafasiche)…

Potremmo paragonare la linguistica, al carattere delle persone: mutevoli, dinamiche, altre statiche, contratte, sintetiche o prolisse, ornate…

Per l’interpretazione di un testo è molto importante l’apporto dell’autore, questo non sempre è possibile, allora è necessario uno studio storico-biografico, ma a volte non è possibile neppure questo.

Il pensiero che un testo sia anche di chi lo legge, può essere suggestivo, condivisibile, ma ci porta in un ambito più psicologico/filosofico che linguistico/letterario. É fondamentale sapere perché uno scrive, se lo fa affinché ci si impossessi, ciascuno a modo suo, della sua creazione o se intende dire cose precise e solo quelle. Peraltro questo discorso può essere applicato a determinate forme d’arte e non certo generalizzato. Se così non fosse a cosa servirebbe la filologia, il rigore di una scienza che discute anche sulle virgole… Ciò vale anche per la poesia, benché da tempo circolino altre tendenze… generalizzanti. Che senso può avere – al di là di quella sperimentale di precise avanguardie – l’interpretazione di un testo difforme dalla volontà dell’autore. Ha poco senso, sempre che non si intenda fare una rielaborazione, ma allora si diventa autori, interpreti di qualcosa d’altro rispetto al testo originale. In questo senso anche il critico, il lettore, l’attore, sono traduttori di linguaggio, interpreti, ma non è detto che siano fedeli.

La polisemia è un’altra variabile da tenere in considerazione, uno stesso termine che muta il suo significato con il variare della professione, del genere, categoria sociale (es. bambini), età, fino all’estremo idioletto (es. la libertà per il fascismo e le dittature, è ben altra cosa in democrazia).

L’importanza della traduzione trascende assolutamente la percezione comune sull’argomento, se si pensa che per Benjamin (drammatica la sua fine, ndr) è un genere dotato di piena autonomia, la ricerca del giusto senso di un’edizione critica o di un testo tradotto, ma anche la consapevolezza della diversità che possono avere stessi testi originali tradotti in qualunque forma da persone differenti. In poesia ciò è ancora più difficoltoso, entra in gioco tutto il mondo di un autore, il suo universo semantico irripetibile, per questo, se la poesia non è puro suono o suggestione, è risolutivo che il poeta si esprima sul senso dei suoi testi, aiuterà a tradirli più fedelmente, non risolverà tutto, ma qualcosa di più.

Come approcciare allora la lettura dei mostri sacri, ad esempio Hamlet di Shakespeare, in originale, ma essendo di madre lingua diversa o direttamente in un altro idioma?

La comprensione del testo può avvenire attraverso l’ostinazione (sic!), con la determinazione a voler leggere un testo e un autore, predisporsi a farlo acquisendo gli strumenti per farlo. Occorrerà una corretta percezione letteraria e una familiarità di spirito con l’autore, da copertina a copertina, from… to…

Quando si interpreta un testo nel modo più accurato possibile, quando ci si appropria dell’oggetto tutelandolo e vivificandolo, si attua un processo di ripetizione originale. Nei limiti delle proprie capacità un lettore riproduce la creazione dell’artista, il suo pensiero, in una consapevolezza secondaria, ma educata, fa rivivere un autore nella sua coscienza pur con limiti interpretativi insuperabili. Una sorta di mimesis parziale, di imitazione finita.

Questa operazione avviene soprattutto nella musica che non può esistere se non la si esegue, e ogni volta è diversa. Il suo rapporto ontologico con la partitura originale è duplice, perché si legge un testo, ma si innova anche.

In che rapporto si pone l’interprete nei confronti di un’opera. Secondo la prof “Il rapporto dell’esecutore deve essere femminile” (leggibile come sottomissione volontaria all’intensità della presenza creativa dell’opera, disponibilità a ricevere [personalmente ho le mie riserve su questa definizione]).

Dall’accoglienza dell’altro l’io diventa più se stesso: critici, curatori, attori, lettori, interpreti, si trovano su un terreno comune tra loro.

Ogni volta che si rappresenta Hamlet si può decidere di adottare diversi registri interpretativi: neutro, moderno, elisabettiano (pronuncia, accento) o modificare i costumi. Si sa che Hamlet non è un personaggio contemporaneo, però si può far finta che lo sia o che non lo sia, creando continui effetti (doppio effetto di straniamento). Nel rappresentare, leggere, interpretare, bisogna essere capaci di non farci sfuggire il testo di mano. A Londra si riproduce il testo elisabettiano; nonostante ciò la rappresentazione è come bloccata, perché c’è nell’osservatore la consapevolezza di un mondo esterno diverso (estraniamento temporale). Si può decidere di dare all’opera abiti contemporanei o di un’altra epoca.

Alla fine si può leggere come si vuole, ma non è male farlo con cognizione di quanto si stia compiendo, usare lo strumento testo, ma andare anche oltre esso con un bagaglio culturale a monte, per una maggiore comprensione, per una più grande soddisfazione.

(Lingua e letteratura inglese – 11.12.1997) MP

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TRADIRE E TRADIRE
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Anika
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Inviato il 01/06/2017 alle 01:46
Я хочу серьезных отношений…

TRATTARE BENE LE LINGUE, SENZA GRATTUGIA

Lezioni condivise 103 – L’atlante linguistico italo-svizzero (AIS)

31 Aug 2015 @ 06:05 PM

Trattare bene le lingue, è scontato, lo è meno pensare che questa affermazione significhi per tutti la stessa cosa. Non credo neppure possa valere allo stesso modo per qualsiasi idioma, giacché è evidente che le lingue non versano tutte nelle stesse condizioni: vi sono le privilegiate, le negate, vietate, dimenticate, in via di estinzione… e non accade solo nel terzo o quarto mondo, ma anche in quello che si autodefinisce civile. Chi tratta male le lingue degli altri, pur essendo convinto del contrario, fa lo stesso con la propria, è incapace di tutelarla.

La questione della lingua è un argomento sempre vivo e per tanti aspetti è giusto che lo sia, la sciagura assoluta è quando interviene la “politica”, non di rado con la sua ignoranza e incompetenza, ma spesso anche con argomenti aberranti, ritorsioni, arbitri.

La questione delle lingue neolatine o romanze, iniziata fin dai tempi del volgare, e protrattasi di secolo in secolo anche con dibattiti di notevole interesse, ha sempre prodotto opinioni differenti. E’ certamente aliena da questo confronto costruttivo quella commissione Manzoni che tirò fuori dal cilindro l’italiano (fiorentino colto) con l’avallo irrituale e sbrigativo del suo amico ministro Broglio (1870). In sostanza per ragion di stato si mise a tacere il dibattito in corso e la politica prevalse sulla scienza. La scelta fu forzata, nell’idea che l’imposizione fosse la soluzione alla “babele” dialettale pre-unitaria. Paradossalmente la proposta del fiorentino era della sezione milanese della commissione, in contrapposizione con quella della sezione fiorentina, più interlocutoria. L’errore politico e storico di unire lo stato con la forza, sotto la tirannia dei Savoia, si ripeteva ai danni della cultura, della ricchezza linguistica del paese; errore oggi evidente, come lo è il naturale verificarsi del percorso sostenuto da Ascoli per la formazione di una koinè attraverso i contatti e i traffici, tra idiomi parenti stretti; la forzatura ha sacrificato parte del lessico, strutture morfologiche e sintattiche che avrebbero potuto coesistere, finché una si fosse affermata o anche no. E’ avvenuto lo stesso processo che si voleva evitare ma in modo innaturale, con la formazione di tante parlate “regionali” che hanno interagito per diglossia con i rispettivi dialetti. E se non si è imparato bene lo standard a scuola, ancora non ci si capisce, come nell’Ottocento. Questo perché la scuola ha rifiutato le lingue “bastarde” e tra queste il sardo, lingua neolatina studiata all’estero, lingua ufficiale degli stati giudicali, lingua per la quale alcuni vorrebbero ripetere l’errore che si è fatto con l’italiano, confondendo le necessarie regole di scrittura con l’oblio della ricchezza della lingua, lessico e grammatica, da tutelare e non tagliare con la scure: non seus pudendi arrosas!

E’ in questo senso che occorre intendersi su cosa significhi trattare bene una lingua, non certo reiterare ciò ha fatto la scuola dell’obbligo fino all’altro ieri in Sardegna, bandendo il sardo manco fosse peste.

Partigiani del rispetto per le lingue sono sicuramente gli atlantisti, proprio perché hanno lavorato sulla loro ricchezza, sulle parole, sui nomi delle cose… La realizzazione di un atlante linguistico è molto lenta e laboriosa; il più completo è ancora oggi l’AIS, benché si siano fatti passi avanti con l’ALI e altri lavori innovativi, ma lontani dall’essere definitivamente conclusi.

L’atlante linguistico italo-svizzero (AIS), Sprach-und Sachatlas Italiens und der Südschweiz, è stato realizzato secondo il progetto dei linguisti svizzeri, Karl Jaberg (1877-1958) dell’Università di Berna e Jakob Jud (1882-1952) dell’Università di Zurigo, allievi di Jules Gilléron (1854-1926), che si ispirarono al suo Atlas linguistique de la France, dichiarando di volerne continuare il lavoro.

Il progetto si concretizzò nel 1911 con la decisione di impiegare un solo raccoglitore ed esplorare il territorio che comprendeva i dialetti romanzi della Svizzera e dell’Italia settentrionale.

L’indagine vera e propria iniziò nel 1919 e solo intorno al 1927 venne estesa a tutta l’area linguistica italiana con l’aggiunta di altri due raccoglitori. I tre erano Paul Scheuermeier (1888-1973), che svolse il grosso del lavoro nel giro di sei anni nella Svizzera e nell’Italia settentrionale e centrale, Gerhard Rohlfs (1892-1986), studioso dell’Università di Tubingen ed esperto di dialetti meridionali che si occupò dei rilevamenti nella sua zona di competenza nell’arco di 15 mesi, e Max Leopold von Wagner (1880-1962) – uno dei maggiori conoscitori della lingua e della cultura sarda, nonché romanista di maggior spicco del ventesimo secolo; laureatosi a Monaco con una tesi sulla formazione delle parole in sardo – che si occupò della Sardegna impiegando 5 mesi. In questo modo si derogava al principio gilliéroniano del raccoglitore unico. Ciò in realtà ha pesato sulla non unitarietà del lavoro complessivo, in quanto i tre hanno proceduto in maniera differente sia nelle interviste, sia nell’elaborazione delle stesse.

La pubblicazione dei dati si protrasse dal 1928 al 1940 e negli anni ‘50 fu pubblicata un’appendice.

I punti d’inchiesta complessivi furono 407. Un’altra deroga alla regole gilliéroniane fu l’inserimento di alcune grandi città perché considerate centri di innovazione linguistica. Ciò implicò l’analisi dei centri da cui erano partite queste innovazioni. Non venne seguito neppure il criterio di equidistanza, per quello di rappresentatività linguistica, che comporta la conoscenza della realtà, ovvero del linguaggio sincronico.

Il questionario era flessibile (2000 domande), ma vi era anche un questionario ridotto da somministrare nelle città (escludendo le indagini che non potevano riguardarle) e un altro ancora più ampio (4000 domande) che veniva somministrato in una sola zona circoscritta, per scopi prettamente lessicali, dunque per la scrittura di un vocabolario; non mancarono i riferimenti di interesse etnografico. Diverse dunque le innovazioni degli ideatori. I ricercatori inoltre annotavano ogni notizia fornita dall’informatore oltre la risposta canonica e fotografavano tutto ciò che sembrava interessante. Il questionario subì ritocchi anche in corso d’opera.

L’atlante si presenta come un lavoro colossale, suddiviso in otto volumi, di cui quattro in due tomi, e il volume conclusivo di Indici pubblicato solo nel 1960.

Le carte non sono state esposte in ordine alfabetico, secondo il principio di Gilliéron, ma sistematico, onomasiologico, per gruppi di cose e concetti (“Wörter und Sachen”), per complessi semantici o, meglio, etnolinguistici, queste in sintesi le categorie: 1) famiglia, cicli vitali, corpo umano, onomastica; 2) mestieri popolari e arnesi, commercio, fenomenologia spazio e tempo, corpi celesti, metalli; 3) minerali, suolo, acque, flora e fauna, caccia e pesca, lavoro legno, arnesi; 4) sonno, malattie, igiene, qualità e difetti, sentimenti, vita religiosa e sociale; 5) abitazione, cucina e alimentazione; 6) allevamento, api/bachicoltura, veicoli lavoro gioco; 7) coltivazioni, arnesi, alberi da frutto, agri/vinicoltura, olio, orto/giardino/campo; 8) fibre tessili-canapa-lino, artigianato, bucato, cucito, vesti, e infine elementi di morfologia, aggettivi, verbi, frasi, dialetti (argomenti eterogenei).

Si registra dunque un’importante innovazione in questo atlante rispetto ai precedenti, appunto l’introduzione del metodo parole-cose nella geografia linguistica, ambiti prima separati. Il metodo ebbe origine nel 1909 dalla fondazione della rivista omonima da parte dei linguisti tedeschi Hugo Schuchardt (1842-1927) e Rudolf Meringer (1859-1931), che riprendeva le indagini onomasiologiche avviate nel 1895 da Ernst Tappolet (1870-1939). Il concetto è che le parole non sono etichette vuote, ma hanno una loro realtà culturale. La parola può mutare ma non cambia la cosa che essa designa, è allora sinonimia (storica o diacronica). In questo contesto si creano dunque rapporti sinergici, con più attenzione al lessico, al vocabolario, agli aspetti etnografici della cultura dialettale, alla realtà oggettuale che le parole designano. I fenomeni linguistici si diffondono come onde, onde di cose designate dalla parola: la patata è quel bulbo

Per Gilliéron (1912) il mutamento linguistico era relativamente semplice, risultato dell’incessante lavorio tra le modificazioni fonetiche di una parola e il tentativo dei parlanti di operare quasi per reazione psicologica una riparazione, per difenderle ad esempio dall’omofonia, condizione più frequenti all’origine delle innovazioni linguistiche, dunque la coincidenza fonetica tra due termini di diverso significato che determinarno la scomparsa di uno dei due.

Jaberg e Jud, in particolare, si concentravano sulle relazioni che intercorrono tra parola e oggetto, ritenendo che la storia di una parola evolva con la storia dell’oggetto.

Con Jacob, Jud (1882-1952) e Karl Jaberg (1877-1958), si fece strada il principio onomasiologico secondo cui i rapporti tra i referenti, i concetti e i segni linguistici che li esprimono, non siano affatto fissi e costanti, ma dipendano dalla prospettiva del parlante e vadano valutati, di volta in volta, in relazione a parametri non solo connessi alla variazione nello spazio, ma anche relativi alla diversa appartenenza sociale dei parlanti, e situazionali, legati a stili corrispondenti a diversi gradi di formalità condizionati dai contesti d’uso. Un’implicita conseguenza di tale assunto fu l’interesse manifestato dai linguisti svizzeri per i rapporti che intercorrono tra la storia delle parole e quella delle cose, secondo l’indirizzo di ricerca denominato Wörter und Sachen («Parole e cose»), in base al quale lo studio della parola non deve essere disgiunto dalla conoscenza precisa e diretta del referente da essa designato e dalla sua diffusione areale. Infatti, uno stesso termine può essere associato a oggetti diversi o a modelli e tipi differenti di un medesimo oggetto, così come l’appartenenza a strati socioculturali o generazionali diversi può implicare differenze nella denominazione di uno stesso referente. Inoltre, con Jaberg (1936) l’analisi geografica dei fenomeni linguistici, fino ad allora limitata a quelli lessicali e fonetici, si estese all’ambito morfologico, associato anche a distinzioni di natura semantica.

Per capire la complessità dell’argomento occorrerebbe portare degli esempi, li abbiamo senza farci caso nel nostro linguaggio quotidiano, basti pensare alle parole uguali che designano cose differenti che individuiamo nel contesto del periodo.

Ho già fatto l’esempio di testa (97). Esso partiva da due grandi variabili provenienti da diverse ondate del latino: căput (capo) in sardo kábu, kápu (che è ancora attestato in cabudu); e kònca (testa).

Nell’area settentrionale della Sardegna ritorna la voce latino-italiana, che resiste anche in area toscana “capo”. “Testa” è una innovazione settentrionale, usata tuttavia anche in Sicilia, in Sardegna è attestato testu (vaso vuoto) . Derivazione da capitia.

In certi punti kaput assume diversi significati per trovare i quali si procede ad analisi semasiologica (testa, gugliata, girino, senno, panna… Altri esempi di sinonimia nel tempo, nello spazio, nel contesto sociale, culturale, tecnico):
indumento abbottonato davanti senza maniche: gilet, cropetu (termini attestatisi in tempi diversi);
vassoio: safata (spagnolismo) – cabaretu (più raffinato);
sinonimi storici, che identificano anche registri linguistici diversi:
cappello, capeddu; cestino, canesteddu, corbula, cadinu;
penna – designa un oggetto cambiato, innovazione -;
foghile, caminetto, tziminera;
il cambiamento delle parole: fassone, determina il cambiamento di tutto il contesto.

Sull’argomento consiglio la bella tesi di laurea di Silvia Zampedri dal titolo Viarago p. 333 (AIS). A novant’anni dall’inchiesta di Scheuermeier. Indagine sociolinguistica su tratti fonetici.

Nota: in sardo tratare/i significa grattugiare (deu tratu, tui tratas, issu tratat, nois trataus, bois tratais, issus tratant).

(Linguistica sarda – 23.4.1997) MP

Commenti (1)

TRATTARE BENE LE LINGUE, MA SENZA GRATTUGIA
1 #
Max
diaryofboard
aaaz@tiscali.it
82.107.19.111
Inviato il 28/08/2015 alle 14:54
Ciao Simo, tu hai disabilitato i commenti, ti posso rispondere solo qui…
Purtroppo noto su me stesso come certa tecnologia stia cambiando le nostre abitudini: fb, tw, smartphone e compagnia bella… Cerco di resistere il più possibile. C’è una qualche utilità in tutto ciò, ma ci rubano anche tanto tempo prezioso.
Resisto, per scrivere, leggere e non solo “commentare” o delegare la comunicazione esclusivamente a twitt, messaggi brevi…
Come vedi alcuni post sono ancora in bozza, è certamente uno degli effetti di quanto dicevo, ma non li mollo, ci torno, perché non si scrive tanto per scrivere, ma per comunicare e possibilmente dibattere, confrontarsi. Hai smesso di viaggiare? Ciao, Max

MAVITELLU!

Lezioni condivise 83 – Pisca a su pa(l)u

30 Nov 2013 @ 11:59 PM

Lo studio della linguistica è affascinante sotto tanti punti di vista, uno di questi è certamente il rivelarsi di un magico mondo sconosciuto, percepire di possedere la chiave di un enigma che è la babele di linguaggi formatisi nel mondo, con tutti i loro significati, anche sociali, scoprire insospettate parentele, vedere come in un sogno masse di genti che si spostano e contaminano i loro linguaggi, ne formano di nuovi.

Dietro una lingua c’è sempre la storia di un popolo, una sorta di DNA che ha a che fare con il tempo, lo spazio, gli accadimenti, le situazioni, le persone, i popoli e la loro cultura e tante altre variabili, la sociolinguistica ha il suo fascino, ma lo ha anche l’idioletto, l’idioma di uno solo.

E’ fantastico scoprire dietro il lavorio del tempo come una o più parole, modificate dalla fonetica dei parlanti e da un’altra miriade di fenomeni, possano avere un’origine comune, o viceversa scoprire come una stessa parola possa cambiare significato nel tempo e nello spazio, perdendo del tutto quello originario. Ma ci sono mille altre curiosità piacevoli e interessanti nella magia linguistica.

Tra le variabili sociolinguistiche cui discorsivamente si è fatto cenno, è degna di interesse quella diafasica (dal greco dia phasis, mediante il dire), che riguarda i diversi contesti in cui si trova a esprimersi il parlante, dunque i diversi registri linguistici che si adoperano con il variare delle situazioni: in famiglia, a scuola, in ufficio, nei posti di lavoro e così via. Questa variabile comprende anche i linguaggi specifici che vengono utilizzati in certi ambiti e in particolari tipi di lavoro, quindi linguaggi tecnici, come possono essere quello tra medici, il linguaggio sportivo, culinario o i vari gerghi tipici di certe professioni o condizioni, come ad esempio quello giovanile.

Muta ad esempio la denominazione di parti del corpo o di organi, a seconda vengano espresse da una persona comune o da un medico.

Occorre dunque analizzare il linguaggio nel suo contesto d’uso; ergo, un professore universitario, si suppone non usi lo stesso registro linguistico durante una lezione e nella domus con i propri figli.

Nella lessicologia sarda abbiamo ad esempio i gerghi tecnici relativi ai ramai (Isili), all’uccellagione o alla pesca, in particolare a quella;

Soffermiamoci su alcune curiosità comuni agli ambienti della pesca storicamente esercitata negli stagni di Cabras e Santa Giusta.

Certe terminologie vengono usate solo nella peschiera, che è uno sbarramento apribile e chiudibile a seconda delle esigenze, costruito dall’uomo per intrappolare i pesci. A Cabras queste chiusure sono fatte ancora con le canne (cannitzadas), come avveniva nel medioevo.

Notiamo come intervengano parti del corpo umano nella designazione della realtà lavorativa.

Sa buca = bocca, rappresenta l’apertura della rete; sa conca = testa, sono le estremità apicali degli attrezzi che vengono adoperati.

C’è da dire che questo linguaggio è anche un po’ un codice segreto di cui gli stessi pescatori sono gelosi, pertanto ci troviamo spesso di fronte a espressioni enigmatiche: ad esempio, per sa cora de is bìddius (letteralmente: il ruscello o scia degli ombelichi) dobbiamo avanzare due ipotesi. Stabilito che is bìddius, nella fattispecie, sono i lembi di muscolo addominale del muggine, che si estraggono con la sacca delle ovaie, verosimilmente, per quanto misteriosa, l’espressione è riferita alla circolazione del muggine stesso.

Ma l’ambito più interessante di questo slang, riguarda i comandi che i pescatori si scambiano nel corso della pesca, comandi che vengono urlati dal puperi (uomo di poppa), recepiti ed eseguiti dall’equipaggio. Questi ordini, incomprensibili ai profani, in quanto pressoché privi di alcun riferimento contingente, rappresentano la sfida per il linguista, riuscire a trovare l’etimologia dei termini apparentemente privi di significato o che lo hanno mutato, e non sempre è possibile. Molto, ad esempio, si deve fare ancora per decifrare i pochi residui di sardo nuragico, comunque prelatino, sopravvissuto e nascosto nei toponimi e in pochi altri vocaboli.

Nella pesca a su pau (palu), che avveniva con la sciabica (una grande rete a sacco tirata a strascico), da poppa, come già detto, partivano tre ordini, come riportato nello schema:

Cun deus (con Dio) rappresenta in sardo una forma di saluto, andiamo con Dio; questa formula avvisa che la sciabica è stata calata e che la pesca può avere inizio con la caba (discesa), ovvero il giro della barca che trascina un’ala della sciabica e tende a circondare i pesci, cioè a formare una barriera tra loro e l’altra ala della sciabica.

Mavitellu! è il secondo ordine che su puperi urla, e al quale corrisponde la chiusura dell’arco della caba, dunque l’avvio della chiusura della sciabica, ovvero il congiungimento tra le due ali, con in mezzo il pesce.

A su pau! (al palo) significa che l’arco della caba è chiuso e invertendo la direzione di voga, si torna al punto di partenza, indicato da un palo.

Il termine “mavitellu” si è appurato provenire dai dialetti meridionali, mutuato nell’uso dei pescatori sardi per contatto con quelli con più grande tradizione del napoletano, Calabria e Sicilia. E’ dunque un prestito desemantizzato, che ha assunto un significato diverso da quello originario che designava l’ala della sciabica (mavitiello).

Adesso che la pesca a su pau sta cadendo in disuso, potrebbero perdersi anche i termini legati ad essa. Molti di essi sono usati nella pesca fin dal tempo dei fenici, una tradizione consolidata negli stagni e dove essa viene storicamente praticata. Termini a volte non documentati: la dedizione dei sardi per la pesca è relativamente tarda. La ricerca sul campo e gli atlanti linguistici rappresentano la salvezza anche per queste forme di patrimonio lessicologico.

(Linguistica sarda – 28.2.1997) MP

Commenti (1)

Mavitellu!!!
1 #
vitty
vitty.n@tiscali.it
84.223.34.103
Inviato il 11/01/2014 alle 22:35
Caro Indian non si può non restare contagiati dal tuo entusiasmo nel leggere questo interessantissimo post.
Mi ha emozionato il paragone sulla ricerca della rivoluzione francese (che adoro!!!) e pensare di “ritrovarsi accanto Danton, Marat, Robespierre e Sanjust insieme.”
Per me sarebbe stata una ubriacatura di emozione, altro che “piccole cose! ”
Questo comunque mi ha fatto capire quello che devi aver provato nel trovarti di fronte un artista come Pinuccio Sciola.
Seguendo il percorso della sua carriera artistica,si capisce il grande amore che nutre per la sua Sardegna. L’ha abbellita ( se mai ce ne fosse stato bisogno,di certo l’ha resa più preziosa ) con degli splendidi murales ( grazie a Google ho potuto ammirarli ) facendo diventare San Sperate,suo paese natale,un museo a cielo aperto.
Anch’io anni fa,in un viaggio indimenticabile in Sardegna, ho avuto la fortuna di ammirare dei murales. Rimasi affascinata guardando quei dipinti che raccontavano storie di vita vera. Non ero dalle parti di Cagliari,perciò dubito che l’autore fosse Sciola. Però ti assicuro erano veramente belli!!
Quanto mi sarebbe piaciuto conoscere l’autore!
La scoperta che nell’isola di Rapa Nui sia stato trovato una costruzione simile a un nuraghe mi ha lasciato senza fiato! Mi ha indignato che non siano stati fatti studi più approfonditi per saperne di più. Finalmente c’era l’occasione per scoprire le origini di quei manufatti ,per mettere insieme i tasselli di una storia tanto affascinante quanto misteriosa . Non è possibile che abbiano ignorato una simile scoperta.
L’indolenza non credo sia riservata solo alla Sardegna.
(Un’isola peraltro che è impossibile non amare. Io vorrei tanto vederla in inverno. Drve essere magnifica! )
Ma temo sia un male comune che opprime tutta l’Italia. Basta vedere come vengono lasciati andare le grandi zone archeologiche…
Ma le emozioni più forti le ho provate nel sentire le pietre che suonano! C’è come una magia dentro quelle pietre che al tocco dell’artista rispondono con dolci melodie.
Come restare indifferenti leggendo le parole dell’artista?
“Caro San Francesco,
quando tu parlavi all’acqua, ai fiori, alle stelle…
la pietra in silenzio stava ad ascoltare.
Adesso, grazie all’intuizione di un artista e alla tecnologia,
la pietra ti farà ascoltare la sua voce, i suoi suoni…
Pinuccio Sciola”
Carlo Levi soleva dire che le parole sono come pietre. ora dopo aver scoperto,grazie a te,le pietre di Sciola,posso dire che le pietre parlano.
Grazie indian per avermi portato in questo mondo magico dell’arte. Continuerò a seguirlo. Un caro saluto, vitty.  (Il commento è evidentemente riferito all’articolo successivo, ndr)

ZÎZNASE

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Le foci dell'Eufrate

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Falcerossa - Comuniste e comunisti

La Pasionaria: Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio

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