DEI RICORSI DELLA STORIA

Lezioni condivise 112 – Formazione della filosofia moderna

31 Mag 2016 @ 11:20 PM

Credo di aver già filosofeggiato sulla filosofia; materia ostica quando si tratta di comprendere quella degli altri, probabilmente me la caverei meglio a spiegare la mia, benché sia zeppa di complessi distinguo, di ardue teorie e tripli salti carpiati… bisognerebbe inserire la filosofia nei giochi olimpici! Diciamo pure che il mio pensiero sulla filosofia è in movimento, anche rispetto a di quali filosofi si parla. Cercherò di essere sufficientemente obiettivo.
La concezione ciclica della vita – rappresentata da una spirale – ci perviene dall’epoca greca e romana, è la teoria secondo cui i fatti si ripetono nel tempo, ma anche nello spazio, mediante dei cicli, e di essa elaborò poi una teoria precisa il Vico. Non si tratta esclusivamente di un’interpretazione della storia, ma di tante altre discipline, dalla fisica ad altre scienze, comprendendo religione e psicologia.
Il tempo ha certamente un valore quantitativo (chrònos) e un aspetto qualitativo (kairós). Gli antichi greci si occupavano soprattutto di quest’ultimo valore, cioè di quanto accadeva di significativo, senza considerare la misura, relegata al fattore economico (Thorwald Dethlefsen, Il Destino come scelta, 1984). Ne abbiamo ancora oggi riscontro nella denominazione dei giorni della settimana o dei mesi. Era fondamentale l’inizio, pertanto si ragionava su quando compiere una determinata attività.
Ai nostri giorni e fin dalla fisica di Newton (tra Seicento e Settecento), queste concezioni di ciclicità vengono considerate ascientifiche, a parte i fenomeni naturali come le stagioni, il ciclo della vita e simili, mentre per tutto il resto l’universo procede progressivamente, seppure con reflussi. Non mancano naturalmente teorie complesse (buchi neri – tempo fermo – e via dicendo) di difficile spiegazione razionale allo stato attuale. Anche la concezione del tempo lineare – concetto biblico e comunque monoteista – viene considerato ascientifico, in quanto tutto procede senza mutazione una sola volta, ma inoltre vi è un inizio e una fine e tutto è affidato alla provvidenza. La filosofia di Hegel e quella di Marx, tentano di conciliare tempo ciclico e lineare, secondo lo schema tesi-antitesi-sintesi, con l’idea progressiva di società che si evolve.
Il più noto teorico della ciclicità è stato Giambattista Vico, contemporaneo di Newton, elaborò le sue tesi in “Scienza nuova”, ricostruendo la storia nell’alternanza di periodi democratici ad altri di dittature e in campo economico periodi di benessere seguiti da altri di crisi. Non fu capito e apprezzato dai contemporanei, tutti appiattiti sulle idee di Cartesio, per il quale le vere scienze erano la fisica e la matematica, concetto che Vico in sostanza capovolse, ritenendo unica vera scienza la storia, in quanto essa era fatta dall’uomo, in opposizione alla natura. Tuttavia lo stesso Vico fondava la storia come mossa dalla provvidenza, se non altro perché condizionava positivamente l’azione umana e tuttavia la distingueva dal fato, che non prevedeva il libero arbitrio. Il punto è controverso e forzato come quello derivante sulla corrispondenza tra religione cristiana e paganesimo, proprio perché entrambe volute dalla “provvidenza”, che nei tempi antichi usò il paganesimo, perché la vera religione non poteva essere compresa.
In principio il paganesimo servì allo scopo di frenare la hybris umana, punita con la nemesis. Vico si serviva della religione per dimostrare le sue tesi, dunque pur essendo credente non si soffermò sull’opera del Cristo, ma sull’opera della chiesa istituzionale, come peraltro sulla corrispondente mitologia pagana. Ma siamo certi che avesse analizzato bene la storia e i suoi effetti? Il problema delle religioni è proprio questo: l’uomo adegua il messaggio originale, semplice e giusto alla sua convenienza non così trasparente, fino a discostarsene al punto che del principio iniziale non si riconosce più nulla. Determinati libri della Legge, così, appaiono confezionati a vantaggio totale di Israele, si tollera il massacro continuo e ripetuto dei popoli non semiti che nei testi risulta voluto dalla divinità. I re sono Messia, eletti da Dio, e spesso agiscono in modo non esattamente giusto, giacché se un testo è sacro, non può essere giustificato con la cruda storia.
Questo è il concetto che opporrà i romani a Gesù. Egli il Messia, dunque re dei giudei, pertanto loro oppositore, tende a sovvertire l’ordine costituito, è un sovversivo a capo di una banda di sovversivi. Dal punto di vista romano la religione c’entra solo in quanto si oppone al loro potere. Si innesca così il meccanismo storico che produrrà le successive vicende del Cristianesimo. I Cristiani, seguaci di Gesù, cui i romani danno la caccia, fuggono da Israele ad Antiochia, a nord, in territorio siriano e sono i più poveri. Quelli più benestanti, in seguito alla conversione di Paolo di Tarso, si stabilirono gradualmente a Roma. Già da allora maturarono l’indipendenza rispetto all’ebraismo, rimanendo monoteisti, questa fu la causa della seconda persecuzione di Diocleziano.
Il concilio di Nicea (325) creò le prime spaccature, inizialmente con l’allontanamento degli ariani, poi con il divenire religione di stato (Costantino – 313, Teodosio – 391): si distinsero latini (cattolici), orientali, ortodossi, copti, siriaci, armeni. La chiesa romana, ormai autoritaria, da sottoposta allo stato, ne diviene guida, dando luogo alle prime guerre di religione e all’evoluzione soprattutto del cattolicesimo, che dal basso medioevo, fino a buona parte dell’età contemporanea si allontana dall’insegnamento originario dei Vangeli per adottare un comportamento politico, monarchico, statuale.
Occorrerebbe comprendere a quale tipologia religiosa si rifaceva il Vico, benché è immaginabile fosse quella gerarchica, senza problematiche di autenticità evangelica. La ciclicità vichiana, peraltro in contrasto con quella lineare cristiana, si fonda su tre età che si ripetono: degli dei, degli eroi, degli uomini. L’età degli dei, avviene in un regime teocratico ove tutte le azioni sono sottoposte alle indicazioni degli oracoli. L’età degli eroi (mitologia) è invece dominata dall’aristocrazia che si arroga il diritto di comandare e di governare in quanto superiore al popolo. L’età degli uomini si basa sull’uguaglianza e sugli ideali di democrazia e libertà, sulla ragione. Le prime due sono definite età poetiche, creative, si passa dal caos all’ordine, dalla fantasia alla razionalità, ma raggiunto questo stadio, si verifica un regresso e si torna alla barbarie. Vico individua la fine del primo ciclo con la caduta di Roma e l’inizio del nuovo nel basso medioevo, ma giunto all’epoca in cui visse, in piena età moderna, le sue teorie si fanno nebulose e contraddittorie, forse lo avrebbe aiutato la Rivoluzione francese, ma non la visse. La sua tesi era inoltre in contraddizione con la religione cristiana. Ciò emerse soprattutto dalle interpretazioni che ne seguirono, anche opposte tra loro.
Secondo l’Accademia di Lipsia, Vico era un gesuita conservatore e la sua opera rappresentava una concezione della storia tesa a favorire la Chiesa Cattolica (tesi adombrata più sopra). Dal canto loro i conservatori cattolici accusarono Vico di mettere in dubbio la concezione biblica della storia e il potere trascendente di Dio su di essa. Gli anticlericali e i socialisti invece esaltarono Vico fino a tutto il Settecento in quanto le sue teorie erano funzionali alla rivoluzione. Come si vede, posizioni che contrastano con la volontà del Vico stesso, ma dovute al suo voler conciliare l’inconciliabile tra paganesimo e cristianità.
Acquisiti dal vichianesimo gli elementi utili, portiamoci necessariamente nell’età contemporanea, che facciamo partire dalla Rivoluzione francese. Questa età è ancora viva, o essendone iniziata una nuova dovremmo addirittura cambiargli nome? Magari definendola età delle Rivoluzioni democratiche e osservando in essa tutti gli elementi originari e successivi che ne hanno determinato la fine.
Gli anni Ottanta del secolo scorso possono essere considerati età di mezzo tra la fine delle grandi rivoluzioni sociali e l’inizio del regresso (allora chiamato riflusso) che persiste tuttora.
Questo riguarda grandi temi sotto gli occhi di tutti, primo quello della disuguaglianza economica, che contiene l’aggravarsi della situazione in quello che era il terzo mondo, la perdita dei diritti da parte della classe operaia e la nascita di una classe di disoccupati e privi di diritti, l’arretramento della condizione e dei diritti delle donne, la nascita di nuove branche di umanità discriminate o che erano in via di liberazione e sono di nuovo oppresse o vittime di nuova schiavitù.
Nella preistoria la facoltà della donna di generare nuove vite la rendeva agli occhi dei maschi una divinità, tanto è vero che per millenni le divinità pagane principali erano femmine. Le cose cambiarono con le migrazioni delle popolazioni dall’Asia fino al tramonto della civiltà egizia. Da oriente viene portata l’idea della donna madre, non dea, e in seguito demone. Nel mondo greco c’è già un predominio maschile. Avviene il passaggio da Inanna, a Ishtar, a Isis (grande madre) fino a Lilith (Eva per l’ebraismo). Nel cristianesimo primitivo è evidente il ruolo positivo della donna. Partendo dal concetto che il trascendente deve diventare immanente, non c’è differenza nel Regno tra uomo e donna. Vangelo di Tommaso (loghion 22): “Quando di due farete uno, quando farete la parte interna come l’esterna, la parte esterna come l’interna e la parte superiore come l’inferiore, quando del maschio e della femmina farete un unico essere per cui non vi sia più né maschio né femmina (…) allora entrerete nel Regno.”
E’ necessario ribadire che le rivoluzioni, per tutta una serie di ragioni, non ultima l’inesperienza dei rivoluzionari, la caducità umana o l’infiltrazione di elementi sabotatori, dopo un avvio in linea con gli scopi che si proponevano, quasi sempre hanno trovato chi se n’é impadronito e ha fatto in loro nome tutto il contrario di quanto era dovuto: il caso più clamoroso è stato quello di Stalin per la rivoluzione russa, ma è accaduto anche con Napoleone e altri, senza contare le rivoluzioni che non erano tali, come quella americana, visto che è avvenuta sulla pelle dei nativi.
La storia non si può semplificare e tutti i fatti devono essere presenti e lo storico non può essere servo dell’ideologia, ma della verità vera, non quella dei controrivoluzionari. La rivoluzione francese è stata la madre di tutte le rivoluzioni e in più occorre ammettere che i suoi valori non si sono spenti con la restaurazione e continuano ad essere vivi. Liberté, Égalité, Fraternité è un motto e un programma valido ancora oggi e che insieme presuppone la pace anche come semplice assenza di conflitti di qualsiasi genere.
Gli stati assoluti, con le nuove assemblee (stati generali, parlamento, cortes) avevano aggregato al potere la classe borghese, almeno a livello consultivo, ed effettivo riguardo alla tassazione. Da questa novità era escluso il popolo la cui condizione rimaneva la medesima da oltre una decina di secoli. Le monarchie inoltre adeguarono i rapporti di forza con la chiesa, non più completamente egemone.
L’insoddisfazione popolare cova e ha evidenti le ingiustizie perpetrate nei suoi confronti, da questo malcontento nasce la Rivoluzione, che nel suo corso prenderà anche strade contraddittorie, ma i cui valori restano ormai insostituibili e resta la forza popolare, quando non viene sopraffatta dai fascismi. La libertà, al di là della distorta interpretazione odierna di alcuni che la intendono come il diritto di fare solo ciò che si vuole, è invece un concetto sociale che si basa sulla libertà di tutti e perché questa ci sia, ognuno deve rispettare quella degli altri, dunque il senso di giustizia che è proprio dell’uguaglianza: nessuno deve prevalere sull’altro, tutti hanno uguali diritti e doveri. A cementare questi concetti deve esserci dunque la solidarietà tra le persone, quella che i rivoluzionari chiamarono fraternità, senza la quale non esistono vere libertà e uguaglianza.
E’ forse libertà quella degli USA (per fare l’esempio di chi più si riempie la bocca insensatamente di quella parola), quando per esistere hanno sterminato le popolazioni indigene, praticato lo schiavismo e il razzismo, vivi ancora oggi con effetti letali e dove la disparità tra ricchi e poveri è massima? E fanno questo magari definendosi cristiani… usando cioè proprio il nome di ciò che non sono. E ancora viviamo all’interno di questo grande equivoco.
(Storia del risorgimento – 12.5.1997) MP

199 filosofia moderna

Commenti (1)

DEI RICORSI DELLA STORIA
1 #
sally brown
innellama@tiscali.it
151.72.212.185
Inviato il 15/05/2016 alle 17:16
Sempre a proposito di ripensamenti?

ERMETISMO E UN CERTO FRAMMENTISMO

Lezioni condivise 62 – Il porto sepolto

 31 Mar 2012 @ 10:57 PM

Ricordate il discorso fatto per Machiavelli, sul mistero di occuparsi di qualcuno abbastanza estraneo ai nostri interessi peculiari? Potrei ripeterlo per Ungaretti, su cui inizio una serie di condivisioni. Ci sono evidentemente delle differenze sostanziali tra la loro tipologia di scrittura, le tematiche di cui si occupano, il tempo in cui scrivono… Ma è indubbio che il segretario fiorentino, cui va riconosciuta l’attenuante di aver scritto nel Cinquecento, mi ha aperto gli occhi (contro la sua volontà o meno non è dato sapere) nei confronti del malaffare politico, non solo dei suoi giorni, giacché il machiavellismo in certi ambienti non è mai passato di moda; e non è poco. Ungaretti invece, rispetto alle cui scelte e non scelte, nutro delle profonde riserve, credo abbia inciso con l’ermetismo e con un certo frammentismo, sullo stile di parte dei versi da me prodotti dopo il 1996. Lo annoto per me stesso e chiedo scusa se uso questo articolo come memo.

Quanto appena esposto testimonia l’utilità dello studio a prescindere dall’oggetto (e dal soggetto), perché (quasi) ovunque c’è da cogliere, almeno per rielaborare, sicuramente per conoscere.

In Ungaretti c’è dunque questa luce comunicativa, che stride con alcuni suoi comportamenti pubblici e privati, tra l’ambiguo, il calcolo subdolo e il menefreghismo. E se debolezze private – che emergono dal nutrito epistolario -, alcuni errori – anche per certe disgrazie occorsegli -, sono classificabili ai confini tra le leggerezze e le miserie umane, il trasformismo conservatore e reazionario – fino alla compromissione ideologica con il fascismo -, sono incomprensibili in una persona con le sue vicende e la sua formazione, e tali restano.

E’ utile precisare che la sua adesione al fascismo (che ha riguardato anche intellettuali oggi apprezzati, ma che hanno fatto ampia ammenda ed erano, al tempo, più o meno adolescenti; non per giustificare, ma per quantificare almeno il livello di responsabilità personale), non ha avuto effetti pratici di rilievo, ma morali sì, se non altro perché da parte sua non c’è stata alcuna reazione alle nefandezze della dittatura; intrattenne invece costanti rapporti con Mussolini, che gli aprì la strada per l’Università di Roma; non si ha notizia di alcun ripensamento rispetto all’adesione al regime neppure dopo la liberazione.

In questo contesto non certamente plausibile, stridente è la contraddizione con la natura che emerge dai suoi versi, al punto tale che il rapporto tra la sua vita pubblica e la poesia resta incompatibile e irrisolto, si pensi solo alle poesie contro la guerra.

Giuseppe Ungaretti nacque ad Alessandria d’Egitto l’8 febbraio 1888 da genitori lucchesi, anarchici. Ebbe una formazione multiculturale, sebbene in parte occasionale. In età giovanile ebbe modo di leggere e apprezzare i poeti francesi, tra cui Baudelaire. Nel 1906 fece l’esperienza di Baracca rossa, deposito adibito a riunioni di socialisti e anarchici, sempre in Egitto.
Nel 1912 si trasferì a Parigi per gli studi universitari. Là ebbe modo di frequentare diversi artisti, tra cui Apollinaire, Picasso, De Chirico, Modigliani e italiani come Palazzeschi (futurista). Pubblicò i suoi primi versi sulla rivista “La voce” di Firenze, fondata da Prezzolini.
Allo scoppio della Grande guerra, interventista, si arruolò in fanteria e combatté sul Carso. Sul fronte scrisse “Il porto sepolto”, pubblicato a Udine nel 1916. Finita la guerra si stabilì in Francia. Nel 1919 pubblicò Allegria di naufragi, contenente Il porto sepolto e La guerre.
Nel 1920 sposò Jeanne Dupoix dalla quale ebbe due figli.
Nel 1921 si traferì a Roma (Marino), dove ebbe inizio il periodo buio di commistione con il fascismo. Svolse l’attività giornalistica come inviato della Gazzetta del popolo. Nel 1928 abbracciò la religione cattolica. In questo periodo maturarono le poesie raccolte ne Il sentimento del tempo.
Nel 1936, raggiunta la massima fama, durante un viaggio in Argentina, accettò un incarico presso l’Università di San Paolo in Brasile, dove si trasferì con la famiglia fino al 1942. Nel 1939 morì il figlio Antonietto, 9 anni, se ne trovano tracce ne Il dolore (1947) e Un grido e paesaggi (1952).
Al ritorno in Italia nel 1942 ebbe l’incarico presso l’Università di Roma, da cui fu sospeso al momento della Liberazione e reintegrato nel 1946 per l’intervento di Natalino Sapegno – parte della lunga schiera di ex-fascisti, poi imboscati anche nei partiti di sinistra, nonostante il passato liberale. Sono quelli che magari hanno disprezzato gli esiliati, che rifiutarono ogni compromesso con il regime, penso a Silone.
La sua opera omnia è stata pubblicata ne La vita di un uomo. Morì a Milano il 2 giugno 1970.

Il porto sepolto è il titolo della sua prima raccolta (1916) poi confluita come parte in “Allegria di naufragi”:
Vi arriva il poeta/ E poi torna alla luce con i suoi canti/ E li disperde/ Di questa poesia/ Mi resta/ Quel nulla/ Di inesauribile segreto.

L’ermetismo e il frammentismo danno certamente lo spunto per una riflessione diffusa sul mondo della poesia; se sia importante penetrarla per scoprirne i segreti dunque il messaggio del poeta, anche intimo e inconfessabile, o se ognuno deve coglierne quello che riceve.

Potrei dire che una cosa non esclude l’altra, se si considera la poesia come qualcosa di plurale, le più cose che è, estetica, sensazione, messaggio, enigma, gioco… Dico certamente che la poesia non può essere spogliata di nessuna delle sue caratteristiche e sarebbe velleitario farsi dei flash sul Porto sepolto, senza capirne la storia, il contesto, la ragione. Su questo ci si può esprimere.

La poesia è del poeta ed è inutile, sempre che non si tratti di sperimentazione mirata, trovarvi qualcosa che non ha voluto dire, dare un senso compiuto per un altro, due letture; e ciò è ancora più vero nel caso dell’ermetismo, dove l’arte dell’allegoria è capovolta, nel senso che ci si esprime in modo diretto, ma celato dalle parole.

L’ermetismo si legge studiando il poeta, la sua vita, le cose che ha scritto, solo così la poesia da fantastica diventa realtà, scoperta, espressione artistica, pittura tangibile.

Il porto sepolto (quasi una terapia di autocoscienza sul fronte in Friuli, dove pare abbia maturato la consapevolezza dell’assurdità delle guerre, giacché sull’altro fronte c’è gente come lui: Fratelli) richiama l’esilio in Egitto; testimonierebbe l’esistenza di una città prima di Alessandria, un porto sommerso di cui ebbe notizia dai f.lli Thuile, ingegneri, a sedici anni e che per lui ha rappresentato un segreto indecifrabile, un “nulla” eterno persistente nell’animo. Qualcosa di cui si conosce l’esistenza, ma irraggiungibile. Un mistero che indica una verità appena percettibile, ma inesauribile: la poesia.

Dannazione, esprime in tre versi la presenza di Dio percepita sul fronte:
Chiuso fra cose mortali/ (anche il cielo stellato finirà)/ Perché bramo Dio?
In una condizione borderline è spontaneo interrogarsi sull’esistenza, sono evidenti i limiti dell’uomo, la sua impotenza, ma allora da dove viene questa capacità di percepire oltre, questa intelligenza, perché non si abbattono questi limiti? Pensare che anche il cielo stellato immenso e misterioso un giorno finirà è quasi una consolazione?

Risvegli, si condensa nella domanda Ma Dio cos’è? come una sorta di appiglio disperato.
Torna il tema del Porto sepolto, il mistero impercettibile, che dà forza:
Ogni mio momento/ io l’ho vissuto/ un’altra volta/ in un’epoca fonda/ fuori di me/
e mi rammento/ di qualche amico/ morto/ Ma Dio cos’è?/…
E si sente/ riavere.

I fiumi è autobiografica, ripercorre la sua vita attraverso i fiumi della sua esistenza. Evidente la drammaticità della guerra e la fuga nell’immensità della natura; qualcosa di più grande, consolante come un grembo materno; nell’Isonzo allora vede i fiumi pacifici dell’infanzia, più rassicuranti:
Ma quelle occulte/ mani/ che mi intridono/ mi regalano/ la rara/ felicità.
Le mani eterne che forgiano il destino di ogni essere e la brevità della vita contrapposta all’assurdità di una guerra.

C’era una volta (1 agosto 1916):
Bosco Cappuccio/ ha un declivio/ di velluto verde/ come una dolce/ poltrona./
Appisolarmi là/ solo/ in un caffè remoto/ con una luce fievole/ come questa/ di questa luna.
Urlo tenue, ma drammatico, rifiuto ribadito della guerra; fiaba metropolitana surreale vissuta in una trincea. Fame e sete di normalità che trova solo nella natura, perché là non c’è umanità; desideri semplici di vita banale che assurgono a felicità.

Lind’oro di deserto è poesia del ricordo, di ricupero di temi della propria vita, scritta sul Carso, al fronte, un flash e un trip, risolto con questi versi:
Il sole spegne il pianto/ Mi copro di un tiepido manto/ di lind’oro/ Da questa terrazza di desolazione/ in braccio mi sporgo/ al buon tempo.
Il sole che sorge dà un po’ di speranza. Nel deserto della trincea la luce mette in risalto un lindo e tiepido manto con cui si copre e trova sollievo.

In Pellegrinaggio è ancora evidente la dicotomia mentale sullo stare al fronte, strisciare sul fango, e pensare ai giardini di Alessandria d’Egitto in cui prospera il biancospino (spinalba) e conferma con i versi:
Ungaretti/ uomo di pena/ ti basta un’illusione/ per farti coraggio.

Trasferire i ricordi biografici nelle opere e rivivere la realtà mescolandola nell’arte, fa parte della sua cultura poetica. Torna continuamente sui suoi testi, vive come un tormento poetico, il lavoro non lo soddisfa mai.

Porto Sepolto segna la conclusione della sua corrispondenza con Marone, direttore della rivista La Diana di Napoli, intorno alla quale ruotavano tutti i poeti che conosceva. La rivista era abbastanza selettiva, i poeti venivano accolti dopo un attento dibattito.
Quello di Napoli (1916) è un periodo riferibile all’approccio leopardiano (Leopardi morì a Napoli). Là incontrò Benedetto Croce e Salvatore di Giacomo.
A Napoli scrisse Natale, in casa di Marone (in Naufragi).
Non ho voglia/ di tuffarmi/ in un gomitolo/ di strade/…/ Lasciatemi così/ come una/ cosa/ posata/ in un/ angolo/ e dimenticata/…/ Sto/ con le quattro/ capriole/ di fumo/ del focolare.
Richiama la tecnica del Porto sepolto. Esprime volontà di isolamento con versi di poche sillabe (decasillabi spezzati).

Notte, tra le poesie disperse, fu scartata delle prime edizioni, forse perché troppo tecnica, (distici) o perché non in tono con le altre.
Io vorrei con le mie mani fare un festone di stelle/ e legarlo con le mie vene/
Io vorrei strappare una stoffa a questa notte bella/ e distenderci sopra la mia creatura.

(Letteratura italiana moderna e contemporanea – 17.1.1997) MP

Commenti (3)

Ermetismo e un certo frammentismo
3 #
Paola
p.vecchiotti@tiscali.it
159.213.40.5
Inviato il 20/04/2012 alle 12:14
anche io non ricordavo l’adesione al fascismo di Ungaretti… non so se nessuno me lo ha detto o se l’ho dimenticato io…

Ermetismo e un certo frammentismo
2 #
Ginevra
https://unavaligiariccadisogni.wordpress.com/
ginevrabertrand@gmail.com
62.253.95.154
Inviato il 14/04/2012 alle 09:07
I enjoyed this blog post.

Ermetismo e un certo frammentismo
1 #
Muriel
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muriel4848@googlemail.com
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Inviato il 01/04/2012 alle 04:15
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