Lezioni condivise 62 – Il porto sepolto
31 Mar 2012 @ 10:57 PM
Ricordate il discorso fatto per Machiavelli, sul mistero di occuparsi di qualcuno abbastanza estraneo ai nostri interessi peculiari? Potrei ripeterlo per Ungaretti, su cui inizio una serie di condivisioni. Ci sono evidentemente delle differenze sostanziali tra la loro tipologia di scrittura, le tematiche di cui si occupano, il tempo in cui scrivono… Ma è indubbio che il segretario fiorentino, cui va riconosciuta l’attenuante di aver scritto nel Cinquecento, mi ha aperto gli occhi (contro la sua volontà o meno non è dato sapere) nei confronti del malaffare politico, non solo dei suoi giorni, giacché il machiavellismo in certi ambienti non è mai passato di moda; e non è poco. Ungaretti invece, rispetto alle cui scelte e non scelte, nutro delle profonde riserve, credo abbia inciso con l’ermetismo e con un certo frammentismo, sullo stile di parte dei versi da me prodotti dopo il 1996. Lo annoto per me stesso e chiedo scusa se uso questo articolo come memo.
Quanto appena esposto testimonia l’utilità dello studio a prescindere dall’oggetto (e dal soggetto), perché (quasi) ovunque c’è da cogliere, almeno per rielaborare, sicuramente per conoscere.
In Ungaretti c’è dunque questa luce comunicativa, che stride con alcuni suoi comportamenti pubblici e privati, tra l’ambiguo, il calcolo subdolo e il menefreghismo. E se debolezze private – che emergono dal nutrito epistolario -, alcuni errori – anche per certe disgrazie occorsegli -, sono classificabili ai confini tra le leggerezze e le miserie umane, il trasformismo conservatore e reazionario – fino alla compromissione ideologica con il fascismo -, sono incomprensibili in una persona con le sue vicende e la sua formazione, e tali restano.
E’ utile precisare che la sua adesione al fascismo (che ha riguardato anche intellettuali oggi apprezzati, ma che hanno fatto ampia ammenda ed erano, al tempo, più o meno adolescenti; non per giustificare, ma per quantificare almeno il livello di responsabilità personale), non ha avuto effetti pratici di rilievo, ma morali sì, se non altro perché da parte sua non c’è stata alcuna reazione alle nefandezze della dittatura; intrattenne invece costanti rapporti con Mussolini, che gli aprì la strada per l’Università di Roma; non si ha notizia di alcun ripensamento rispetto all’adesione al regime neppure dopo la liberazione.
In questo contesto non certamente plausibile, stridente è la contraddizione con la natura che emerge dai suoi versi, al punto tale che il rapporto tra la sua vita pubblica e la poesia resta incompatibile e irrisolto, si pensi solo alle poesie contro la guerra.
Giuseppe Ungaretti nacque ad Alessandria d’Egitto l’8 febbraio 1888 da genitori lucchesi, anarchici. Ebbe una formazione multiculturale, sebbene in parte occasionale. In età giovanile ebbe modo di leggere e apprezzare i poeti francesi, tra cui Baudelaire. Nel 1906 fece l’esperienza di Baracca rossa, deposito adibito a riunioni di socialisti e anarchici, sempre in Egitto.
Nel 1912 si trasferì a Parigi per gli studi universitari. Là ebbe modo di frequentare diversi artisti, tra cui Apollinaire, Picasso, De Chirico, Modigliani e italiani come Palazzeschi (futurista). Pubblicò i suoi primi versi sulla rivista “La voce” di Firenze, fondata da Prezzolini.
Allo scoppio della Grande guerra, interventista, si arruolò in fanteria e combatté sul Carso. Sul fronte scrisse “Il porto sepolto”, pubblicato a Udine nel 1916. Finita la guerra si stabilì in Francia. Nel 1919 pubblicò Allegria di naufragi, contenente Il porto sepolto e La guerre.
Nel 1920 sposò Jeanne Dupoix dalla quale ebbe due figli.
Nel 1921 si traferì a Roma (Marino), dove ebbe inizio il periodo buio di commistione con il fascismo. Svolse l’attività giornalistica come inviato della Gazzetta del popolo. Nel 1928 abbracciò la religione cattolica. In questo periodo maturarono le poesie raccolte ne Il sentimento del tempo.
Nel 1936, raggiunta la massima fama, durante un viaggio in Argentina, accettò un incarico presso l’Università di San Paolo in Brasile, dove si trasferì con la famiglia fino al 1942. Nel 1939 morì il figlio Antonietto, 9 anni, se ne trovano tracce ne Il dolore (1947) e Un grido e paesaggi (1952).
Al ritorno in Italia nel 1942 ebbe l’incarico presso l’Università di Roma, da cui fu sospeso al momento della Liberazione e reintegrato nel 1946 per l’intervento di Natalino Sapegno – parte della lunga schiera di ex-fascisti, poi imboscati anche nei partiti di sinistra, nonostante il passato liberale. Sono quelli che magari hanno disprezzato gli esiliati, che rifiutarono ogni compromesso con il regime, penso a Silone.
La sua opera omnia è stata pubblicata ne La vita di un uomo. Morì a Milano il 2 giugno 1970.
Il porto sepolto è il titolo della sua prima raccolta (1916) poi confluita come parte in “Allegria di naufragi”:
Vi arriva il poeta/ E poi torna alla luce con i suoi canti/ E li disperde/ Di questa poesia/ Mi resta/ Quel nulla/ Di inesauribile segreto.
L’ermetismo e il frammentismo danno certamente lo spunto per una riflessione diffusa sul mondo della poesia; se sia importante penetrarla per scoprirne i segreti dunque il messaggio del poeta, anche intimo e inconfessabile, o se ognuno deve coglierne quello che riceve.
Potrei dire che una cosa non esclude l’altra, se si considera la poesia come qualcosa di plurale, le più cose che è, estetica, sensazione, messaggio, enigma, gioco… Dico certamente che la poesia non può essere spogliata di nessuna delle sue caratteristiche e sarebbe velleitario farsi dei flash sul Porto sepolto, senza capirne la storia, il contesto, la ragione. Su questo ci si può esprimere.
La poesia è del poeta ed è inutile, sempre che non si tratti di sperimentazione mirata, trovarvi qualcosa che non ha voluto dire, dare un senso compiuto per un altro, due letture; e ciò è ancora più vero nel caso dell’ermetismo, dove l’arte dell’allegoria è capovolta, nel senso che ci si esprime in modo diretto, ma celato dalle parole.
L’ermetismo si legge studiando il poeta, la sua vita, le cose che ha scritto, solo così la poesia da fantastica diventa realtà, scoperta, espressione artistica, pittura tangibile.
Il porto sepolto (quasi una terapia di autocoscienza sul fronte in Friuli, dove pare abbia maturato la consapevolezza dell’assurdità delle guerre, giacché sull’altro fronte c’è gente come lui: Fratelli) richiama l’esilio in Egitto; testimonierebbe l’esistenza di una città prima di Alessandria, un porto sommerso di cui ebbe notizia dai f.lli Thuile, ingegneri, a sedici anni e che per lui ha rappresentato un segreto indecifrabile, un “nulla” eterno persistente nell’animo. Qualcosa di cui si conosce l’esistenza, ma irraggiungibile. Un mistero che indica una verità appena percettibile, ma inesauribile: la poesia.
Dannazione, esprime in tre versi la presenza di Dio percepita sul fronte:
Chiuso fra cose mortali/ (anche il cielo stellato finirà)/ Perché bramo Dio?
In una condizione borderline è spontaneo interrogarsi sull’esistenza, sono evidenti i limiti dell’uomo, la sua impotenza, ma allora da dove viene questa capacità di percepire oltre, questa intelligenza, perché non si abbattono questi limiti? Pensare che anche il cielo stellato immenso e misterioso un giorno finirà è quasi una consolazione?
Risvegli, si condensa nella domanda Ma Dio cos’è? come una sorta di appiglio disperato.
Torna il tema del Porto sepolto, il mistero impercettibile, che dà forza:
Ogni mio momento/ io l’ho vissuto/ un’altra volta/ in un’epoca fonda/ fuori di me/…
e mi rammento/ di qualche amico/ morto/ Ma Dio cos’è?/…
E si sente/ riavere.
I fiumi è autobiografica, ripercorre la sua vita attraverso i fiumi della sua esistenza. Evidente la drammaticità della guerra e la fuga nell’immensità della natura; qualcosa di più grande, consolante come un grembo materno; nell’Isonzo allora vede i fiumi pacifici dell’infanzia, più rassicuranti:
Ma quelle occulte/ mani/ che mi intridono/ mi regalano/ la rara/ felicità.
Le mani eterne che forgiano il destino di ogni essere e la brevità della vita contrapposta all’assurdità di una guerra.
C’era una volta (1 agosto 1916):
Bosco Cappuccio/ ha un declivio/ di velluto verde/ come una dolce/ poltrona./
Appisolarmi là/ solo/ in un caffè remoto/ con una luce fievole/ come questa/ di questa luna.
Urlo tenue, ma drammatico, rifiuto ribadito della guerra; fiaba metropolitana surreale vissuta in una trincea. Fame e sete di normalità che trova solo nella natura, perché là non c’è umanità; desideri semplici di vita banale che assurgono a felicità.
Lind’oro di deserto è poesia del ricordo, di ricupero di temi della propria vita, scritta sul Carso, al fronte, un flash e un trip, risolto con questi versi:
Il sole spegne il pianto/ Mi copro di un tiepido manto/ di lind’oro/ Da questa terrazza di desolazione/ in braccio mi sporgo/ al buon tempo.
Il sole che sorge dà un po’ di speranza. Nel deserto della trincea la luce mette in risalto un lindo e tiepido manto con cui si copre e trova sollievo.
In Pellegrinaggio è ancora evidente la dicotomia mentale sullo stare al fronte, strisciare sul fango, e pensare ai giardini di Alessandria d’Egitto in cui prospera il biancospino (spinalba) e conferma con i versi:
Ungaretti/ uomo di pena/ ti basta un’illusione/ per farti coraggio.
Trasferire i ricordi biografici nelle opere e rivivere la realtà mescolandola nell’arte, fa parte della sua cultura poetica. Torna continuamente sui suoi testi, vive come un tormento poetico, il lavoro non lo soddisfa mai.
Porto Sepolto segna la conclusione della sua corrispondenza con Marone, direttore della rivista La Diana di Napoli, intorno alla quale ruotavano tutti i poeti che conosceva. La rivista era abbastanza selettiva, i poeti venivano accolti dopo un attento dibattito.
Quello di Napoli (1916) è un periodo riferibile all’approccio leopardiano (Leopardi morì a Napoli). Là incontrò Benedetto Croce e Salvatore di Giacomo.
A Napoli scrisse Natale, in casa di Marone (in Naufragi).
Non ho voglia/ di tuffarmi/ in un gomitolo/ di strade/…/ Lasciatemi così/ come una/ cosa/ posata/ in un/ angolo/ e dimenticata/…/ Sto/ con le quattro/ capriole/ di fumo/ del focolare.
Richiama la tecnica del Porto sepolto. Esprime volontà di isolamento con versi di poche sillabe (decasillabi spezzati).
Notte, tra le poesie disperse, fu scartata delle prime edizioni, forse perché troppo tecnica, (distici) o perché non in tono con le altre.
Io vorrei con le mie mani fare un festone di stelle/ e legarlo con le mie vene/
Io vorrei strappare una stoffa a questa notte bella/ e distenderci sopra la mia creatura.
(Letteratura italiana moderna e contemporanea – 17.1.1997) MP
Commenti (3)
Ermetismo e un certo frammentismo
3 #
Paola
p.vecchiotti@tiscali.it
159.213.40.5
Inviato il 20/04/2012 alle 12:14
anche io non ricordavo l’adesione al fascismo di Ungaretti… non so se nessuno me lo ha detto o se l’ho dimenticato io…
Ermetismo e un certo frammentismo
2 #
Ginevra
https://unavaligiariccadisogni.wordpress.com/
ginevrabertrand@gmail.com
62.253.95.154
Inviato il 14/04/2012 alle 09:07
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Ermetismo e un certo frammentismo
1 #
Muriel
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muriel4848@googlemail.com
62.253.95.154
Inviato il 01/04/2012 alle 04:15
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