TRADIRE E TRADIRE

31 luglio 2016 @ 21:54

Lezioni condivise 114 – Hamlet e la traduzione 

Avventurarsi nell’universo della traduzione è un po’ come entrare in un campo minato, come sfidare l’Idra di Lerna o per un altro verso rischiare, filosofeggiando all’estremo, di far cadere illusioni: “Ho letto tutto Dostoevskij”. Ma quale Dostoevskij? in che lingua? tradotto da chi? Per leggere Dostoevskij occorre davvero conoscere il russo? Non basterebbe comunque! …Continuando di questo passo ci si aggroviglierebbe in una Babele di concetti senza via d’uscita.  

Questo non significa che l’argomento non abbia un peculiare interesse e non debba essere trattato. Siamo, come sosteneva Walter Benjamin tra filosofia e letteratura. Il termine Babele rende l’idea in un’accezione positiva e affascinante.

Qualsiasi lettore sarà venuto certamente a contatto con una pubblicazione mal tradita e avrà avuto la possibilità di sbalordirsi perché non rispecchiava affatto quanto appreso dalla critica sia sul testo sia sull’autore.

Da adolescente fui notevolmente impressionato da traduzioni dall’inglese di parole di brani musicali, alcune banali, altre improbabili o di un ermetismo surreale… Non che un testo inglese non possa essere banale, incongruo o ermetico, ma il più delle volte si tratta di una traduzione errata, perché eccessivamente letterale e siccome ogni lingua fa parte a sé e ha la sua ricchezza, non è tutto così piatto.

Per trasporre un testo da una lingua a un’altra, almeno nelle traduzioni importanti e serie, occorre avere buona padronanza di entrambe le lingue, ma anche conoscenza della cultura in cui quelle lingue inferiscono, non semplicemente conoscere il vocabolario e qualche nozione di grammatica e tuttavia, un testo tradotto/tradito in un’altra lingua non sarà mai quello che si potrebbe leggere nella lingua originale; per poterne rendere in modo accettabile la comprensione, o come dire, per effettuale un fedele tradimento, occorre un passaggio semantico, semiotico, storico… un’operazione non facile e comunque mai assoluta.

Il mercato è pieno di libri tradotti male, molti di essi già complessi in sé, diventano di proibitiva comprensione…

La traduzione non è un’arte facile. George Steiner (1929) in Dopo Babele – Aspetti del linguaggio e della traduzione, scritto con Walter Benjamin (1892-1940), ha dato importanti indicazioni in merito. Intanto ha stabilito la differenza tra il tradurre e l’interpretare. Babele è il simbolo della genesi della pluralità linguistica. Un confronto tra lingue deve partire dall’individuazione delle reazioni interattive rispetto a retorica, storia, critica della letteratura, linguistica e filosofia linguistica.

La traduzione è insita in ciascun atto comunicativo, essa rappresenta un crescendo di difficoltà, che ha inizio nella semplice comunicazione tra individui che parlano o scrivono la stessa lingua, comunicano con gli stessi segni, ognuno di essi ha il suo idioletto, ogni uomo, di base, ha un suo linguaggio.

Pensiamo alle lunghe discussioni che a volte si verificano anche in seguito a una comunicazione semplice; significa che si hanno gli strumenti per comunicare e dibattere, ma che si hanno difficoltà a capire, decifrare, tradurre, anche se si dialoga nella stessa lingua convenzionale.

Questo genere di difficoltà si risolvono con l’ermeneutica (esegesi, spiegazione), un metodo empirico in quattro tempi: spinta iniziale – aggressione – incorporazione – reciprocità o restituzione. La comprensione di un testo deve tener conto di tutta una serie di variabili linguistiche (in parte già viste nelle lezioni di Filologia romanza e Linguistica sarda), quelle spazio-temporali (diatopiche e diacroniche), ma anche relative alla condizione (distratiche), al mezzo (diamesiche), alla situazione (diafasiche)…

Potremmo paragonare la linguistica, al carattere delle persone: mutevoli, dinamiche, altre statiche, contratte, sintetiche o prolisse, ornate…

Per l’interpretazione di un testo è molto importante l’apporto dell’autore, questo non sempre è possibile, allora è necessario uno studio storico-biografico, ma a volte non è possibile neppure questo.

Il pensiero che un testo sia anche di chi lo legge, può essere suggestivo, condivisibile, ma ci porta in un ambito più psicologico/filosofico che linguistico/letterario. É fondamentale sapere perché uno scrive, se lo fa affinché ci si impossessi, ciascuno a modo suo, della sua creazione o se intende dire cose precise e solo quelle. Peraltro questo discorso può essere applicato a determinate forme d’arte e non certo generalizzato. Se così non fosse a cosa servirebbe la filologia, il rigore di una scienza che discute anche sulle virgole… Ciò vale anche per la poesia, benché da tempo circolino altre tendenze… generalizzanti. Che senso può avere – al di là di quella sperimentale di precise avanguardie – l’interpretazione di un testo difforme dalla volontà dell’autore. Ha poco senso, sempre che non si intenda fare una rielaborazione, ma allora si diventa autori, interpreti di qualcosa d’altro rispetto al testo originale. In questo senso anche il critico, il lettore, l’attore, sono traduttori di linguaggio, interpreti, ma non è detto che siano fedeli.

La polisemia è un’altra variabile da tenere in considerazione, uno stesso termine che muta il suo significato con il variare della professione, del genere, categoria sociale (es. bambini), età, fino all’estremo idioletto (es. la libertà per il fascismo e le dittature, è ben altra cosa in democrazia).

L’importanza della traduzione trascende assolutamente la percezione comune sull’argomento, se si pensa che per Benjamin (drammatica la sua fine, ndr) è un genere dotato di piena autonomia, la ricerca del giusto senso di un’edizione critica o di un testo tradotto, ma anche la consapevolezza della diversità che possono avere stessi testi originali tradotti in qualunque forma da persone differenti. In poesia ciò è ancora più difficoltoso, entra in gioco tutto il mondo di un autore, il suo universo semantico irripetibile, per questo, se la poesia non è puro suono o suggestione, è risolutivo che il poeta si esprima sul senso dei suoi testi, aiuterà a tradirli più fedelmente, non risolverà tutto, ma qualcosa di più.

Come approcciare allora la lettura dei mostri sacri, ad esempio Hamlet di Shakespeare, in originale, ma essendo di madre lingua diversa o direttamente in un altro idioma?

La comprensione del testo può avvenire attraverso l’ostinazione (sic!), con la determinazione a voler leggere un testo e un autore, predisporsi a farlo acquisendo gli strumenti per farlo. Occorrerà una corretta percezione letteraria e una familiarità di spirito con l’autore, da copertina a copertina, from… to…

Quando si interpreta un testo nel modo più accurato possibile, quando ci si appropria dell’oggetto tutelandolo e vivificandolo, si attua un processo di ripetizione originale. Nei limiti delle proprie capacità un lettore riproduce la creazione dell’artista, il suo pensiero, in una consapevolezza secondaria, ma educata, fa rivivere un autore nella sua coscienza pur con limiti interpretativi insuperabili. Una sorta di mimesis parziale, di imitazione finita.

Questa operazione avviene soprattutto nella musica che non può esistere se non la si esegue, e ogni volta è diversa. Il suo rapporto ontologico con la partitura originale è duplice, perché si legge un testo, ma si innova anche.

In che rapporto si pone l’interprete nei confronti di un’opera. Secondo la prof “Il rapporto dell’esecutore deve essere femminile” (leggibile come sottomissione volontaria all’intensità della presenza creativa dell’opera, disponibilità a ricevere [personalmente ho le mie riserve su questa definizione]).

Dall’accoglienza dell’altro l’io diventa più se stesso: critici, curatori, attori, lettori, interpreti, si trovano su un terreno comune tra loro.

Ogni volta che si rappresenta Hamlet si può decidere di adottare diversi registri interpretativi: neutro, moderno, elisabettiano (pronuncia, accento) o modificare i costumi. Si sa che Hamlet non è un personaggio contemporaneo, però si può far finta che lo sia o che non lo sia, creando continui effetti (doppio effetto di straniamento). Nel rappresentare, leggere, interpretare, bisogna essere capaci di non farci sfuggire il testo di mano. A Londra si riproduce il testo elisabettiano; nonostante ciò la rappresentazione è come bloccata, perché c’è nell’osservatore la consapevolezza di un mondo esterno diverso (estraniamento temporale). Si può decidere di dare all’opera abiti contemporanei o di un’altra epoca.

Alla fine si può leggere come si vuole, ma non è male farlo con cognizione di quanto si stia compiendo, usare lo strumento testo, ma andare anche oltre esso con un bagaglio culturale a monte, per una maggiore comprensione, per una più grande soddisfazione.

(Lingua e letteratura inglese – 11.12.1997) MP

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TRADIRE E TRADIRE
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Anika
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Inviato il 01/06/2017 alle 01:46
Я хочу серьезных отношений…

MAL UNIDOS, DE SICURU!

Lezioni condivise 110 – La priorità della Lingua

31 Mar 2016 @ 23,58

Uno dei dispiaceri di molti intellettuali sardi è il luogo comune che ci dipinge ancora come pocos, locos y mal unidos, che ci portiamo dietro dal tempo della dominazione spagnola. E vorrei vedere il sardo che non si risentisse! Mi interessa tuttavia discutere sul giudizio di mal unidos; è naturale che ci dia fastidio, eppure se non fossimo davvero poco solidali tra noi, meno attenti ai campanili o anche alle cattedrali (nel deserto) e più al bene della Sardegna, forse staremmo un po’ meglio. Non mi avventuro in analisi storiche peraltro già in parte affrontate, voglio riferirmi al presente e alla fondamentale questione della lingua. In questo campo noi sardi stiamo dando il peggio di noi stessi, come quei politici che ogni volta buttano giù anche quel poco di buono fatto dai predecessori, vecchia usanza latina, una sorta di damnatio memoriae.

Sembrerebbe che lo stato della lingua sarda sia nuovamente a un bivio, o a un trivio. Il nuovo secolo era iniziato bene. Nel 1999 la legge sulle minoranze linguistiche, riconosceva finalmente anche se molto parzialmente, un nostro diritto costituzionale e qualche anno prima una legge regionale, esecutiva, riconosceva pari dignità a sardo e italiano. Da allora sono stati fatti molti passi avanti in positivo, ma molti meno di quelli che si sarebbero potuti fare, quasi sempre per i freni dei politici nostrani e per questo non si è colto l’attimo per fare quelli necessari – tra questi il regolamento di attuazione della legge 482/1999 -, comunque quasi tutti i Comuni della Sardegna hanno attivato uno sportello linguistico, l’insegnamento del sardo sta facendo breccia nella scuola e nella società civile, si sono realizzati alcuni progetti, purtroppo in parte un po’ abbandonati… bontà del renzismo!

Da alcuni anni, forse anche troppi, si assiste a uno stallo se non a un regresso; spiace constatare che ciò coincida con il ritorno in regione di una giunta che si definisce di “sinistra”, o forse per prudenza di “centrosinistra”. L’elettore spera sempre che i governi “progressisti” facciano cose conseguenti, invece si deve regolarmente constatare che anche questi governi continuano a fare cose di destra. E la favola che le categorie destra e sinistra sono superate non si può sentire, giacché c’è un abisso tra chi subisce le politiche conservatrici e chi invece ne usufruisce. La realtà è che non c’è più sinistra…

L’azione del movimento linguistico segna il passo anche per l’eccessivo calo dei finanziamenti, che pur tenendo conto della crisi, sono un attentato alla valorizzazione della lingua sarda ed è peraltro quanto ci si può aspettare da una politica retriva, che ragiona ancora contando gli elettori che accontenta per carpirne il voto.

Ciò che non ci si aspetterebbe è che persista una sorta di “guerra”, o più di una, tra i partigiani della lingua sarda… Nella migliore delle ipotesi si tratta di contrasti di campanile: il mio sardo è migliore del tuo e roba simile, ma si tratta anche di guerre di “potere”, gelosie, le peggiori faziosità e disobiettività, cavilli assurdi, testardaggini, pinnicas. Situazioni che frazionano il movimento linguistico, favoriscono i passi indietro e l’avanzata dei detrattori della lingua sarda.

Le posizioni più nocive sono quelle degli integralisti del logudorese e del campidanese, testardi quasi quanto Likud e Hamas. Posizioni che stanno minando una situazione di equilibrio e apertura della LSC. Vi erano cose da rivedere e lentamente si stavano rivedendo, non a favore delle fazioni, ma della lingua sarda. Chi blocca il progresso della lingua con queste questioni ha certamente altri interessi che non sono il bene del sardo, ma usa il sardo per affermare la propria persona ed è questo il motivo per cui non si fanno passi avanti e si tira continuamente il freno.

Parlavo di guerre, perché sono diverse: Campidano vs Logudoro, tutti contro tutti, difensori della lingua contro accademici, studiosi contro studiosi, giovani contro maestri e via dicendo.

Questa paradossale dimostrazione di disunità è da stigmatizzare, da denunciare, fa incazzare seriamente chi nel movimento linguistico vuole esclusivamente il bene della lingua sarda e non posizioni di potere, ed è chiaro che servono i denari per chi lavora, ed è chiaro che chi lavora deve essere retribuito.

Quanto agli studi, alla ricerca, credo diano un importante contributo alla lingua; gli atlanti stessi lo danno sicuramente al lessico e non solo, le parole non sono mai fini a se stesse, ma hanno una storia, un’etimologia, e nessuno ha il diritto di cassarle. Sarebbero auspicabili invece collaborazioni e idee e soprattutto lavorare tenendo in piedi una base concreta, che è la LSC e non muoversi nel caos.

Dalla LSC lingua di scrittura, lingua ufficiale, si parte verso la formazione della koinè, senza imposizioni di stile manzoniano, che abbiamo visto cosa hanno prodotto per reazione nell’italiano: la guerra dei “dialetti”, la loro necessità di farsi spazio con la forza, contro gli apparati, primi fra tutti i ministri della P.I., che spesso hanno agito contro gli stessi loro compiti, come ministri dell’ignoranza. Non penso che queste parole possano cambiare le cose, ma le dico, in mezzo a chi si fa la guerra, è bene che quelli che vogliono lavorare si contino, si conoscano e portino avanti la lingua sarda nella sua totale ricchezza.

Quali i concetti da privilegiare? Proteggere le specificità e favorire la crescita della koinè, fenomeno naturale e in corso; tutela di tutto il lessico e la grammatica, salvo le sole banali variazioni fonetiche, che pure come in ogni lingua possono coesistere. La ricchezza della lingua va favorita e non gettata via. E’ naturale che un significato possa essere espresso con più termini e non c’è più situazione deprimente di dover sentir ripetere sempre gli stessi luoghi comuni.

Ma affrontiamo concretamente un Atlante linguistico pubblicato o almeno del quale è iniziata la pubblicazione. Si tratta dell’Atlante Linguistico Italiano (ALI – italiano non inteso come lingua, ma come territorio), il cui primo volume (almeno in questo campo abbiamo avuto una priorità) è quello relativo alla Sardegna. Naturalmente non si tratta di una preferenza, ma di una ragione scientifica: il fatto che il dominio del sardo abbia confini finiti, precisi, essendo limitato all’isola e la sua peculiarità, come lingua più conservativa tra le lingue neolatine (tanto che Dante ci volle escludere dalle parlate volgari sostenendo che il sardo ripeteva pedissequamente il latino. Si tratta di un argomento che meriterebbe una specifica trattazione, mi limito solo a osservare che la conoscenza del sardo da parte del “divin” poeta non era approfondita, evidentemente, giacché tra l’altro non ne coglieva il sostrato e le varianti territoriali derivanti dalle diverse fasi temporali di influenza del latino e dal contatto con altre lingue. In ogni caso dobbiamo dargli atto che fu il primo a sostenere il nostro slogan: Sardigna no est italia).

Il materiale è pubblicato in volume per carte sparse (schede), per concetti linguistici produttivi. Vediamo la scheda della parola pipistrello (essere tra topo e uccello).
La scheda mostra una illustrazione contenente il risultato della ricerca sul campo, ovvero le varie voci nel sardo del termine in esame. Si dà atto che nel sardo non esistono continuazioni della voce latina (con buona pace di Dante), ma esclusivamente tipi lessicali originali, peculiari (attinenti alla creatività popolare locale).
I tipi fondamentali. Settentrione: tzirriolu; meridione: zunzurreddu, sunzurreddu, sintzimurreddu.
Dizioni minori. Centrale: alipedde (ala ‘e pedde) ala di pelle (Goceano, Margine; Buddusò, Nule, Bono).
Nuorese: zuzurreri (dal rumore delle ali, onomatopeico).
I tipi marginali: il genovese ratu pernugu (Calasetta), il catalano rata piñata (Alghero), i catalanismi del campidano: arratapignatta (con il fenomeno della prostesi e del raddoppiamento sintattico, come in riu – arriu).
Alcune variazioni morfologiche chiariscono il senso rendendo più facile la parola: da alipedde deriva a Orani,  impeddone (fonosimbolismo).
La dicitura farighe proveniente dal Corso, ha invaso l’area di tzirriolu.
Il ricorso a nomi sostitutivi per le denominazioni ha in Sardegna, come altrove, ragioni apotropaiche: non nominare affinché non compaia, così come si fa per la volpe che è chiamata in modo surrogato – come viene esaminato nella seconda carta – es. margiani.

Per l’approfondimento dello studio i materiali sono disponibili nelle biblioteche universitarie.
Gli Atlanti linguistici sono un importante strumento scientifico, ma anche di tutela del lessico, specie quello delle lingue minoritarie.

(Linguistica sarda – 9.5.1997) MP

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MAL UNIDOS, DE SICURU!
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            Tonya
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Inviato il 16/08/2017 alle 07:17
I needs to spend some time learning more or understanding more.

KAOS, OVVERO, PERSO IN UN DEITTICO

Lezioni condivise 107 – Sintassi e pragmatica

 31 dicembre 2015 @  20,06

Oggi ho rivisto Rosa alla Conferenza interdisciplinare che c’è stata in luogo della lezione di Linguistica sarda.  Non la vedevo dalla primavera scorsa; dopo la nostra ricerca sul campo ci eravamo persi di vista, seguito strade diverse, evidentemente anche lei ha avuto il suo da fare, ma oggi c’era, speravo fosse serena, lo era.

Ci siamo incontrati fin dal mattino, sembrava nulla fosse cambiato dall’ultima volta, evidentemente entrambi condividevamo di nuovo lo stesso spirito, quello che ti prende allo stomaco in modo morboso, quasi di malessere, ti toglie fiato e ti rende farfugliante; per fortuna esiste un linguaggio del corpo rivelatore, l’effetto calamita, quello che ti guida come barca alla deriva e ti porta immancabilmente nell’aula 11.

E’ sempre difficile descrivere uno stato del genere, lo hanno fatto diversi scrittori anche in capolavori della letteratura mondiale con più o meno efficacia, rispetto al nostro spirito, intendo. Tuttavia a me è capitato spesso, un blocco che causa una miriade di situazioni e sensazioni psico-fisiche che ti sorprendono e riesci a razionalizzare solo dopo che tutto è finito e puoi criticare lucidamente il tuo comportamento, quasi sempre si tratta di una severa autocritica. Quanto sopra è difficile da descrivere, ho tentato perché se non si ha la pazienza di farsi comprendere si può essere pericolosamente fraintesi. Si tratta qui di sensazioni più che di atti, questi non esistono proprio o sono goffi…

Ma cosa accade quando si è dentro l’aula 11, vuota, e si è accostata la porta, e quel senso di “paura” comincia a passare? perché tu sai che lei sa, lei sa che tu sai – anche se non è mai detto, so per certo che se trovi quella giusta poi ti dice che voleva solo visitare l’aula, perché non era mai stata nell’aula 11, è un gran rischio, mai portare nell’aula 11 una sconosciuta.

Sebbene sia passato del tempo, Rosa la conosco, abbiamo già dato, e là non ci servono né sedie né cattedre, ci serve una parete libera. Sì, quando lei si è appoggiata e io di fronte, ha fatto una decina di secondi di resistenza, proferendo sonorità inesplicabili, poi è stata fusione impetuosa per diversi minuti, per poi gradualmente placarsi, fino al completo ristabilirsi dell’intelletto.

Risulta misterioso come ci si possa perdere se si è entrambi animati da tale furore, ma accade, accade anche spesso per innumerevoli motivi, dal carattere, all’insicurezza, fino all’indolenza.

Il bello è che la cura dell’aula 11 è efficacissima, quasi del tutto risolte le turbolenze di stomaco, sostituite da una sensazione più positiva di appetito, così ci concediamo un aperitivo in mensa. Abbiamo parlato per tre ore di tutto quanto fosse possibile parlare, di studi, politica, vita quotidiana, letture, perfino di Justine ou les malheurs de la vertu e di berretti frigi, oltre alle sue allusioni a noi. Lasciata la mensa attendiamo, per il tempo che rimane in sala lettura.

La Conferenza si tiene nell’aula 7, il Laboratorio di cinema, vecchia conoscenza – non unica – di attività politiche svolte nel tempo della scuola superiore.

L’aula è piena, il tema che si affronterà è “Il testo teatrale tra sintassi e pragmatica” e prevede la proiezione del film “Kaos” dei Fratelli Taviani, che avevo già visto ai tempi romani ed è un film sicuramente d’art et d’essai, cioè di qualità e di ricerca artistica.

Dopo la proiezione ha inizio la conferenza e il dibattito. L’attenzione generale nella sala non dà luogo ad alcuna deroga. Posso riportare i contenuti con fedeltà e condivisione.

Occorre definire il mezzo sociolinguistico che discrimina la comunicazione (diamesia), ovvero la differenziazione linguistica in base al mezzo con cui si svolge l’atto comunicativo.

La distinzione più elementare è quella tra espressione scritta e parlata. Dal dialogo (tra due o più persone) (oralità/ascolto), alla diffusione di un testo fonologico, destinato a un pubblico ampio, anche sconosciuto, senza possibilità immediata di replica (trasmissione/ascolto), fino alla comunicazione scritta tout court (scrittura/lettura). Il mezzo comunicativo presuppone l’uso di un differente codice espressivo, di un altro tipo linguaggio.

Nell’oralità, l’espressione “Un sacco di…” esprime una quantità indefinita, ma non lo troveremo in un testo scritto nella lingua standard, sufficientemente corretto; tuttavia l’espressione può legittimamente trovare posto in un testo teatrale in quanto media tra i due mezzi, ovvero, il testo teatrale è scritto perché venga oralizzato.

L’avvento di nuove forme comunicative scritte modifica il discrimine classico facendo emergere nuove definizioni, come “parlato trasmesso” (radio, tv, cinema, telefono) e “scritto trasmesso” (internet, mail, sms), che operano una sorta di incrocio, un parlato che si avvicina al testo e un testo tipico dell’oralità.

I parametri principali che determinano la variazione linguistica sono: la diacronia, in rapporto al tempo; la diatopia, in rapporto allo spazio; la diastratia, in rapporto alla condizione sociale dei parlanti; la diafasia, in rapporto alla situazione.

Nel testo teatrale vi è una mediazione tra scritto e parlato, caratterizzato dalle deissi, forme espressive tipiche del parlato, “abusate” sul palcoscenico perché efficaci nella interazione con il pubblico, e che volendo possono anche caratterizzare i personaggi.

E’ evidente che nel teatro si verificano in parte alcune delle situazioni che caratterizzano il dialogo, avendo di fronte un interlocutore che partecipa e reagisce (risa, applausi ecc.), si creano insomma quelle condizioni per l’uso di un registro espressivo diverso da quello del testo scritto. Più esattamente avviene il passaggio dal testo scritto al parlato, il testo scenico, che completa il testo teatrale.

Riguardo alla dicotomia tra storia linguistica, storia della grammatica e semiotica, il testo teatrale riveste per la sua ambivalenza tra scritto e parlato (con le categorie parlato-parlato, parlato-scritto, parlato-recitato) un particolare termine di paragone e discrimine tra sintassi e pragmatica.

Tra parlato teatrale (o drammatico) e parlato reale, la differenza ovvia è che il primo è appunto più drammatico, teatrale, irreale, tendente a provocare attenzione mentre accade. Per questo il testo teatrale contiene tensione, inquietudine, esasperazione, equivoci, allusioni, sottintesi e altre ambiguità semantiche: queste necessità si riflettono sul testo.

Il testo teatrale in un certo senso azzera la variabile diamesica, ovvero la differenza tra lingua parlata e lingua scritta, in quanto un testo teatrale è scritto perché venga recitato.

La lingua parlata ha delle caratteristiche che la contraddistinguono, la pragmaticità, – ovvero deitticità, quindi lo stretto legame con la situazione reale -, la frammentarietà, l’uso di segni.

La deissi, dunque lo stretto rapporto tra discorso e situazione, è preponderante nel testo teatrale rispetto a qualsiasi altro genere letterario, la ragione è evidente: a teatro si cerca di far apparire un testo come reale, benché il primo manchi della spontaneità dell’altro, dunque deve essere assolutamente comprensibile a chi ascolta.

Secondo Cesare Segre, che ha elaborato le tesi di Alessandro Serpieri, i deittici sono i mezzi linguistici più forti di ancoraggio del testo alla situazione e sono presenti nel testo teatrale più che in ogni altro testo scritto, essi rappresentano “l’immanenza dello spettacolo in seno al testo”. In parole povere, un’esclamazione, ad esempio, da sola rende chiaro il concetto che si vuole esprimere. “I deittici sono infatti il preciso supporto alla gestualità e alla messinscena, costituiscono insomma l’immanenza dello spettacolo in seno al testo”. Allo stesso tempo la pragmaticità è solo fittizia perché i dialoghi sono prestabiliti.

Per altri studiosi il testo teatrale è incompleto finché non è espresso nella scena, giacché solo lì si traducono in gesto alcuni deittici.

Io me n’andrei là (La mandragola – Machiavelli); Ecco il padrone (Il marescalco – Aretino); Quest’é un fiorino, te’ (La Lena – Ariosto): Osservate questi orecchini. Vi piacciono? (La locandiera – Goldoni), scambio mimico-gestuale. Le deissi hanno una loro tipologia, quelle mimico/gestuali e quelle enfatiche.

Un’altra forma che ha preso piede specie nei testi teatrali dal Settecento in poi, sono le pause e le interruzioni, espresse in genere con i puntini di sospensione alla ricerca di una soluzione dialogica naturale.

Ad esse si accompagnano vari segnali discorsivi, come le interiezioni, congiunzioni, avverbi, verbi, locuzioni, formule e frasi che possono svolgere molteplici ruoli comunicativi. Anche in questo caso dal Settecento i testi risultano più curati e variegati.

Pertanto il teatro è il luogo privilegiato di applicazione delle teorie semiotiche per: la sua natura e comunicazione segnica, la pluricodicità, il rapporto spazio-temporale della rappresentazione e quello dello spettatore. Elementi segnici sono: l’attore/personaggio, la scena/finzione, il tempo scenico, ed è come un accordo tra attori sul palco e spettatori, un gioco complesso di immedesimazione e ricezione.

Nel teatro si verifica un livello di finzione doppio, quello della scrittura/invenzione (che corrisponde a quello letterario) e quello della rappresentazione.

Aristotele ha distinto tra mimesi (teatro): un io che finge su un presente, dove si sa solo di chi parla in scena – ed è lo spettatore a giudicare diventando di fatto un attore della finzione -, e diegesi (narrazione): si racconta di un egli, che può essere collocato in qualsiasi temporalità e il narratore può anche essere onnisciente su esso.

I codici comunicativi presenti nel teatro sono stati così individuati da Kowzan: testo/parlato, espressione corporea, apparenza scenica (mimica), scenografia, rumori di scena; testo scritto, ovvero solo testo.

Per Segre un altro elemento della rappresentazione teatrale è la densità, dover concentrare gli avvenimenti in un tempo più o meno prestabilito: “La «densità» è dunque nello stesso tempo concentrazione e accelerazione”.

In un articolo di questa pesantezza la redazione mise accanto il fumetto di un improbabile cameriere con una pizza fumante, ma alla fine della conferenza mi aspetta una serata con Rosa, non un banale deittico.

(Linguistica sarda – 30.4.1997) MP

Minimum monologue:
However, that fucking year was 2015! Just start, beginning, chimeras, mirages, suspensions … then cheat you…
Look, there’s someone worse off than you” and you remain fucked with your guilt…
(Però, che cazzo di anno è stato il 2015! Solo avvii, inizi, chimere, miraggi, sospensioni… che poi ti frega… “Guarda che c’è chi sta peggio di te” e tu rimani fottuto con i tuoi sensi di colpa…).

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TRATTARE BENE LE LINGUE, SENZA GRATTUGIA

Lezioni condivise 103 – L’atlante linguistico italo-svizzero (AIS)

31 Aug 2015 @ 06:05 PM

Trattare bene le lingue, è scontato, lo è meno pensare che questa affermazione significhi per tutti la stessa cosa. Non credo neppure possa valere allo stesso modo per qualsiasi idioma, giacché è evidente che le lingue non versano tutte nelle stesse condizioni: vi sono le privilegiate, le negate, vietate, dimenticate, in via di estinzione… e non accade solo nel terzo o quarto mondo, ma anche in quello che si autodefinisce civile. Chi tratta male le lingue degli altri, pur essendo convinto del contrario, fa lo stesso con la propria, è incapace di tutelarla.

La questione della lingua è un argomento sempre vivo e per tanti aspetti è giusto che lo sia, la sciagura assoluta è quando interviene la “politica”, non di rado con la sua ignoranza e incompetenza, ma spesso anche con argomenti aberranti, ritorsioni, arbitri.

La questione delle lingue neolatine o romanze, iniziata fin dai tempi del volgare, e protrattasi di secolo in secolo anche con dibattiti di notevole interesse, ha sempre prodotto opinioni differenti. E’ certamente aliena da questo confronto costruttivo quella commissione Manzoni che tirò fuori dal cilindro l’italiano (fiorentino colto) con l’avallo irrituale e sbrigativo del suo amico ministro Broglio (1870). In sostanza per ragion di stato si mise a tacere il dibattito in corso e la politica prevalse sulla scienza. La scelta fu forzata, nell’idea che l’imposizione fosse la soluzione alla “babele” dialettale pre-unitaria. Paradossalmente la proposta del fiorentino era della sezione milanese della commissione, in contrapposizione con quella della sezione fiorentina, più interlocutoria. L’errore politico e storico di unire lo stato con la forza, sotto la tirannia dei Savoia, si ripeteva ai danni della cultura, della ricchezza linguistica del paese; errore oggi evidente, come lo è il naturale verificarsi del percorso sostenuto da Ascoli per la formazione di una koinè attraverso i contatti e i traffici, tra idiomi parenti stretti; la forzatura ha sacrificato parte del lessico, strutture morfologiche e sintattiche che avrebbero potuto coesistere, finché una si fosse affermata o anche no. E’ avvenuto lo stesso processo che si voleva evitare ma in modo innaturale, con la formazione di tante parlate “regionali” che hanno interagito per diglossia con i rispettivi dialetti. E se non si è imparato bene lo standard a scuola, ancora non ci si capisce, come nell’Ottocento. Questo perché la scuola ha rifiutato le lingue “bastarde” e tra queste il sardo, lingua neolatina studiata all’estero, lingua ufficiale degli stati giudicali, lingua per la quale alcuni vorrebbero ripetere l’errore che si è fatto con l’italiano, confondendo le necessarie regole di scrittura con l’oblio della ricchezza della lingua, lessico e grammatica, da tutelare e non tagliare con la scure: non seus pudendi arrosas!

E’ in questo senso che occorre intendersi su cosa significhi trattare bene una lingua, non certo reiterare ciò ha fatto la scuola dell’obbligo fino all’altro ieri in Sardegna, bandendo il sardo manco fosse peste.

Partigiani del rispetto per le lingue sono sicuramente gli atlantisti, proprio perché hanno lavorato sulla loro ricchezza, sulle parole, sui nomi delle cose… La realizzazione di un atlante linguistico è molto lenta e laboriosa; il più completo è ancora oggi l’AIS, benché si siano fatti passi avanti con l’ALI e altri lavori innovativi, ma lontani dall’essere definitivamente conclusi.

L’atlante linguistico italo-svizzero (AIS), Sprach-und Sachatlas Italiens und der Südschweiz, è stato realizzato secondo il progetto dei linguisti svizzeri, Karl Jaberg (1877-1958) dell’Università di Berna e Jakob Jud (1882-1952) dell’Università di Zurigo, allievi di Jules Gilléron (1854-1926), che si ispirarono al suo Atlas linguistique de la France, dichiarando di volerne continuare il lavoro.

Il progetto si concretizzò nel 1911 con la decisione di impiegare un solo raccoglitore ed esplorare il territorio che comprendeva i dialetti romanzi della Svizzera e dell’Italia settentrionale.

L’indagine vera e propria iniziò nel 1919 e solo intorno al 1927 venne estesa a tutta l’area linguistica italiana con l’aggiunta di altri due raccoglitori. I tre erano Paul Scheuermeier (1888-1973), che svolse il grosso del lavoro nel giro di sei anni nella Svizzera e nell’Italia settentrionale e centrale, Gerhard Rohlfs (1892-1986), studioso dell’Università di Tubingen ed esperto di dialetti meridionali che si occupò dei rilevamenti nella sua zona di competenza nell’arco di 15 mesi, e Max Leopold von Wagner (1880-1962) – uno dei maggiori conoscitori della lingua e della cultura sarda, nonché romanista di maggior spicco del ventesimo secolo; laureatosi a Monaco con una tesi sulla formazione delle parole in sardo – che si occupò della Sardegna impiegando 5 mesi. In questo modo si derogava al principio gilliéroniano del raccoglitore unico. Ciò in realtà ha pesato sulla non unitarietà del lavoro complessivo, in quanto i tre hanno proceduto in maniera differente sia nelle interviste, sia nell’elaborazione delle stesse.

La pubblicazione dei dati si protrasse dal 1928 al 1940 e negli anni ‘50 fu pubblicata un’appendice.

I punti d’inchiesta complessivi furono 407. Un’altra deroga alla regole gilliéroniane fu l’inserimento di alcune grandi città perché considerate centri di innovazione linguistica. Ciò implicò l’analisi dei centri da cui erano partite queste innovazioni. Non venne seguito neppure il criterio di equidistanza, per quello di rappresentatività linguistica, che comporta la conoscenza della realtà, ovvero del linguaggio sincronico.

Il questionario era flessibile (2000 domande), ma vi era anche un questionario ridotto da somministrare nelle città (escludendo le indagini che non potevano riguardarle) e un altro ancora più ampio (4000 domande) che veniva somministrato in una sola zona circoscritta, per scopi prettamente lessicali, dunque per la scrittura di un vocabolario; non mancarono i riferimenti di interesse etnografico. Diverse dunque le innovazioni degli ideatori. I ricercatori inoltre annotavano ogni notizia fornita dall’informatore oltre la risposta canonica e fotografavano tutto ciò che sembrava interessante. Il questionario subì ritocchi anche in corso d’opera.

L’atlante si presenta come un lavoro colossale, suddiviso in otto volumi, di cui quattro in due tomi, e il volume conclusivo di Indici pubblicato solo nel 1960.

Le carte non sono state esposte in ordine alfabetico, secondo il principio di Gilliéron, ma sistematico, onomasiologico, per gruppi di cose e concetti (“Wörter und Sachen”), per complessi semantici o, meglio, etnolinguistici, queste in sintesi le categorie: 1) famiglia, cicli vitali, corpo umano, onomastica; 2) mestieri popolari e arnesi, commercio, fenomenologia spazio e tempo, corpi celesti, metalli; 3) minerali, suolo, acque, flora e fauna, caccia e pesca, lavoro legno, arnesi; 4) sonno, malattie, igiene, qualità e difetti, sentimenti, vita religiosa e sociale; 5) abitazione, cucina e alimentazione; 6) allevamento, api/bachicoltura, veicoli lavoro gioco; 7) coltivazioni, arnesi, alberi da frutto, agri/vinicoltura, olio, orto/giardino/campo; 8) fibre tessili-canapa-lino, artigianato, bucato, cucito, vesti, e infine elementi di morfologia, aggettivi, verbi, frasi, dialetti (argomenti eterogenei).

Si registra dunque un’importante innovazione in questo atlante rispetto ai precedenti, appunto l’introduzione del metodo parole-cose nella geografia linguistica, ambiti prima separati. Il metodo ebbe origine nel 1909 dalla fondazione della rivista omonima da parte dei linguisti tedeschi Hugo Schuchardt (1842-1927) e Rudolf Meringer (1859-1931), che riprendeva le indagini onomasiologiche avviate nel 1895 da Ernst Tappolet (1870-1939). Il concetto è che le parole non sono etichette vuote, ma hanno una loro realtà culturale. La parola può mutare ma non cambia la cosa che essa designa, è allora sinonimia (storica o diacronica). In questo contesto si creano dunque rapporti sinergici, con più attenzione al lessico, al vocabolario, agli aspetti etnografici della cultura dialettale, alla realtà oggettuale che le parole designano. I fenomeni linguistici si diffondono come onde, onde di cose designate dalla parola: la patata è quel bulbo

Per Gilliéron (1912) il mutamento linguistico era relativamente semplice, risultato dell’incessante lavorio tra le modificazioni fonetiche di una parola e il tentativo dei parlanti di operare quasi per reazione psicologica una riparazione, per difenderle ad esempio dall’omofonia, condizione più frequenti all’origine delle innovazioni linguistiche, dunque la coincidenza fonetica tra due termini di diverso significato che determinarno la scomparsa di uno dei due.

Jaberg e Jud, in particolare, si concentravano sulle relazioni che intercorrono tra parola e oggetto, ritenendo che la storia di una parola evolva con la storia dell’oggetto.

Con Jacob, Jud (1882-1952) e Karl Jaberg (1877-1958), si fece strada il principio onomasiologico secondo cui i rapporti tra i referenti, i concetti e i segni linguistici che li esprimono, non siano affatto fissi e costanti, ma dipendano dalla prospettiva del parlante e vadano valutati, di volta in volta, in relazione a parametri non solo connessi alla variazione nello spazio, ma anche relativi alla diversa appartenenza sociale dei parlanti, e situazionali, legati a stili corrispondenti a diversi gradi di formalità condizionati dai contesti d’uso. Un’implicita conseguenza di tale assunto fu l’interesse manifestato dai linguisti svizzeri per i rapporti che intercorrono tra la storia delle parole e quella delle cose, secondo l’indirizzo di ricerca denominato Wörter und Sachen («Parole e cose»), in base al quale lo studio della parola non deve essere disgiunto dalla conoscenza precisa e diretta del referente da essa designato e dalla sua diffusione areale. Infatti, uno stesso termine può essere associato a oggetti diversi o a modelli e tipi differenti di un medesimo oggetto, così come l’appartenenza a strati socioculturali o generazionali diversi può implicare differenze nella denominazione di uno stesso referente. Inoltre, con Jaberg (1936) l’analisi geografica dei fenomeni linguistici, fino ad allora limitata a quelli lessicali e fonetici, si estese all’ambito morfologico, associato anche a distinzioni di natura semantica.

Per capire la complessità dell’argomento occorrerebbe portare degli esempi, li abbiamo senza farci caso nel nostro linguaggio quotidiano, basti pensare alle parole uguali che designano cose differenti che individuiamo nel contesto del periodo.

Ho già fatto l’esempio di testa (97). Esso partiva da due grandi variabili provenienti da diverse ondate del latino: căput (capo) in sardo kábu, kápu (che è ancora attestato in cabudu); e kònca (testa).

Nell’area settentrionale della Sardegna ritorna la voce latino-italiana, che resiste anche in area toscana “capo”. “Testa” è una innovazione settentrionale, usata tuttavia anche in Sicilia, in Sardegna è attestato testu (vaso vuoto) . Derivazione da capitia.

In certi punti kaput assume diversi significati per trovare i quali si procede ad analisi semasiologica (testa, gugliata, girino, senno, panna… Altri esempi di sinonimia nel tempo, nello spazio, nel contesto sociale, culturale, tecnico):
indumento abbottonato davanti senza maniche: gilet, cropetu (termini attestatisi in tempi diversi);
vassoio: safata (spagnolismo) – cabaretu (più raffinato);
sinonimi storici, che identificano anche registri linguistici diversi:
cappello, capeddu; cestino, canesteddu, corbula, cadinu;
penna – designa un oggetto cambiato, innovazione -;
foghile, caminetto, tziminera;
il cambiamento delle parole: fassone, determina il cambiamento di tutto il contesto.

Sull’argomento consiglio la bella tesi di laurea di Silvia Zampedri dal titolo Viarago p. 333 (AIS). A novant’anni dall’inchiesta di Scheuermeier. Indagine sociolinguistica su tratti fonetici.

Nota: in sardo tratare/i significa grattugiare (deu tratu, tui tratas, issu tratat, nois trataus, bois tratais, issus tratant).

(Linguistica sarda – 23.4.1997) MP

Commenti (1)

TRATTARE BENE LE LINGUE, MA SENZA GRATTUGIA
1 #
Max
diaryofboard
aaaz@tiscali.it
82.107.19.111
Inviato il 28/08/2015 alle 14:54
Ciao Simo, tu hai disabilitato i commenti, ti posso rispondere solo qui…
Purtroppo noto su me stesso come certa tecnologia stia cambiando le nostre abitudini: fb, tw, smartphone e compagnia bella… Cerco di resistere il più possibile. C’è una qualche utilità in tutto ciò, ma ci rubano anche tanto tempo prezioso.
Resisto, per scrivere, leggere e non solo “commentare” o delegare la comunicazione esclusivamente a twitt, messaggi brevi…
Come vedi alcuni post sono ancora in bozza, è certamente uno degli effetti di quanto dicevo, ma non li mollo, ci torno, perché non si scrive tanto per scrivere, ma per comunicare e possibilmente dibattere, confrontarsi. Hai smesso di viaggiare? Ciao, Max

LA LANGUE. MARCA PATATA

Lezioni condivise 100 – Polemiche linguistiche e complessità.

31 Mag 2015 @ 21:58

Quando siamo nati in pochi anni abbiamo imparato una lingua, i più fortunati due o anche più, ed è stato un fatto naturale cui non abbiamo fatto caso più di tanto; ancora bambini probabilmente abbiamo anche appreso dell’esistenza di tante lingue e tante altre cose a seconda dei nostri studi e interessi. La situazione odierna presenta una differenza sostanziale: i bambini di un tempo erano naturalmente bilingui (imparavano in modo naturale sia la lingua ufficiale e passivamente la seconda lingua o dialetto), quelli di oggi un’altra lingua o dialetto possono apprenderli solo a scuola. Insomma la relativa apertura della società verso il multilinguismo, non riesce a compensare quanto si imparava in casa o con gli amici, per di più in regime di proibizione a usare lingua che non fosse l’italiano, per quanto ci riguarda come sardi.

Non tutti ancora sanno perché parlano una determinata lingua e soprattutto quale dibattito, quali polemiche, quali battaglie, quale storia vi sia dietro l’idioma che si parla, non è esattamente un fatto ereditario e lo è ancora meno per le colonie. Certe zone marginali hanno dovuto cambiare lingua ufficiale e/o dialetto, a causa della forza delle armi o per ragion di stato. Chiediamoci perché ancora viene impedito nelle scuole lo studio della storia sarda.

In tale argomento sono comprese anche le polemiche tra linguisti e dialettologi, terminologie che non avrebbe senso separare, ma occorre farlo per comprendere le rispettive posizioni. Per intenderci i linguisti sarebbero i difensori della lingua ufficiale, i dialettologi quelli della lingua a tutto campo, senza preclusioni di sorta.

Nei primi anni del novecento, dopo l’acceso dibattito che caratterizzò trent’anni prima la questione della scelta della lingua italiana ufficiale – dibattito che si trascinava fin dall’epoca medievale, sebbene esclusivamente in funzione letteraria -, ci furono accese polemiche relativamente alla geografia linguistica e in particolare alla redazione delle carte, ovvero se puntare su parlata urbana o rurale, in sostanza se valorizzare il “dialetto” o meno. Ciò sulla scia dei diversi studi che presero in considerazione l’inserimento del lessico rurale nel vocabolario, a suo tempo non condiviso dal Manzoni, che insisteva sul fiorentino. Lo scontro venne sintetizzato come polemica tra atlantisti (favorevoli al lessico rurale sia negli atlanti che nel vocabolario) e vocabolaristi, che invece erano contrari alla “contaminazione” del lessico fiorentino.

La prevalenza numerica dei primi, che si estrinsecò in una vera e propria corrente letteraria, dal verismo al regionalismo, fino agli albori del neorealismo, non riuscì ad infrangere l’ufficialità della lingua standard, ma a lungo andare di fatto lo fece e se ne ha riscontro nella linguistica e nei vocabolari odierni.

Furono pubblicati dei testi che trattavano il tema direttamente, come I Beati Paoli (1909) di Luigi Natoli, – giornalista, filosofo, storico, filologo – romanzo popolare il cui intento era infondere nel lettore il rapporto tra letteratura ‘alta’ e letteratura ‘bassa’, inteso come una mistura di registri e modalità narrative. Il romanzo popolare in definitiva conferma, sul piano storico-linguistico, la fluidità della norma otto-novecentesca, capace di veicolare contenuti socio-identitari e socio-etici destinati a radicarsi nella memoria popolare.

Un limite dei vocabolari, relativamente allo studio dei significati, secondo gli atlantisti, è che sarebbero elaborati in ordine alfabetico per cui non si possono fare paralleli concettuali veloci.

Gli atlanti, invece, documentano la parola, non la langue; l’atlante rappresenta l’idioletto del singolo parlante, perché l’informatore è uno solo per scheda, scelto secondo dei precisi criteri.

La parola da attestare è la prima detta, sono esclusi sinonimi e ripensamenti. Semmai può essere ricostruito il contesto della risposta, la discussione, se l’informatore ha avuto dubbi, se si è corretto, se si riscontra che la domanda è stata mal posta, fraintesa, male interpretata dal raccoglitore.

Il linguista Mc Lion segnalò gli errori di Ugo Pellis nella ricerca sui volatili in Sardegna, in quanto estese tutti i nomi raccolti in un centro montano a tutta l’isola. Nel suo caso le cose furono complicate anche dall’incompetenza dei parlanti. Questo è un limite che viene posto agli atlanti linguistici, in quanto uno stesso questionario non è adeguato a tutte le aree, tanto meno è efficace un questionario nazionale. Che senso avrebbe infatti indagare su l’alpeggio (allevamento in altura) in Sardegna o sul mare al nord?

Un questionario non può prescindere dallo studio dell’area in cui è somministrato, in quanto deve garantire delle omogeneità; a un’area variegata si adegueranno i punti di inchiesta la cui caratteristica dovrà essere la rapidità, la risposta spontanea.

L’atlante regionale consente di studiare questionari più precisi, adeguati, benché ogni ricercatore abbia i propri metodi: il Contini ha raccolto dati in tutti i paesi della Sardegna, producendo una lessicografia localistica.

Peraltro vi sono diverse metodologie che possono essere adottate a seconda dell’oggetto dello studio; per la sintassi sono utili le trasmissioni radiofoniche, che non creano interferenza.

Altri sistemi sono gli etno testi: basati su conversazioni guidate, utilizzabili in senso diacronico.

Vi sono studi di tipo onomasiologico: studio delle parole, dei segni linguistici o la raccolta di denominazioni di materiali iconografici (Atlante italo-svizzero, AIS, per il quale Wagner fece l’inchiesta in Sardegna).

Gli step per la realizzazione di uno studio di dialettologia: esporre i materiali raccolti evidenziando le parole dialettali; indicazione delle modalità d’inchiesta, schedatura materiale linguistico (una scheda per ogni parola).

Il concetto di “Marca”.

Riguarda il campo della fonologia, specie per le opposizioni fonologiche (es. differenza tra t e d, una meno sonora, l’altra più sonora), ma si è poi esteso a tutta la grammatica, morfologia, sintassi, lessico.

La marca mette a confronto due o più forme linguistiche: una forma marcata è una forma non primaria, ovvero rispetto ad essa è marcata da un segno, un suffisso, una desinenza che la differenzia rispetto al lemma originario.

L’esempio più elementare è prendere una forma neutra o base e marcarla, ad esempio casa è un sostantivo non marcato in italiano rispetto a cas-e (plurale) o cas-etta (diminutivo): la parola abbraccia genericamente tutto il campo semantico, mentre cas-e, la forma marcata, si riferisce a molte case, esclude dunque il significato base. Lo stesso dicasi per maschile-femminile, es. alto, alt-a, il maschile è considerato non marcato perché convenzionalmente anche neutro, racchiude in se un significato generale, quello femminile solo il suo.

La marcatezza è un concetto molto elastico e generale: ci sono infatti pochi criteri base per determinare quale forma è considerata marcata e quale no.

Una marca è riferibile a diversi campi semantici, ma anche a tutte le variabili spazio temporali, culturali, religiose, rituali, scientifiche, dialettali, colloquiali, standard, solenni, gergali, poetiche e via dicendo e più nel dettaglio: a) le professioni e discipline; b) varianti socialmente marcate, con riferimenti eterogenei in base a luogo o modalità di enunciazione: gergo, dialetto (regionale, studentesco, tecnico/gergale, dei bambini… c) Varianti arcaiche (es. scortese, mal sonante, volgare, popolare), albero opzioni avanzate (codici), brand.

Franz Josef  Hausmann (1989) definì i macrocampi in cui possono agire i marchi, tra cui: quello diacronico (che marca i fenomeni di tempo, presente-passato, vecchio-nuovo) diatopico (inerente lo spazio, variabilità della lingua comune, regionale…), diaintegrativo (nazionale/estero), diamesico (parlato-scritto), diastratico (alto-basso), diafásico (formale-informale), diatestuale (poetico-letterario-giornalistico-amministrativo), diatécnico (speciale/comune), diafrequente (comune/raro),  diaevaluativo o diaconnotativo (connotativi, eufemismi), dianormativo (giusto/sbagliato).

Santillana dell’Università di Salamanca, si riferisce in modo esplicito ai marchi.  Individua quattro tipi di marchi:
a) Termini tecnici (Aer, aeronautica)
b) Marchi di uso o registro (9 marchi: ristretto, rurale, volgare, slang, colloquiale, letterario, elevato, amministrativo, affettivo).
c) Marchi pragmatici (23 marchi): affermazione, minaccia, anticipatori, disgusto, rabbia, insultare umoristico dei bambini…
d) Ispanoamericanismi (il resto dei termini dialettali dello spagnolo). Buon riposo!

(Linguistica sarda  – 18.4.1997) MP

Commenti (2)

LA LANGUE
2 #
Simona
simoseru@tiscali.it
2.38.94.2
Inviato il 13/08/2015 alle 19:37
Interessante scoprire che ancora qualcuno scrive sul suo blog e soprattutto interessante leggerlo.
dovremmo sempre ricordarci tutto ciò, ma anche ricordarci di trattare bene le lingue 😉
grazie

LA LANGUE
1 #
greta cabrera
hummingbirdtattoo.org/
greta.cabrera@gmail.com
198.52.228.189
Inviato il 30/06/2015 alle 23:33
you are in a place mysterious and tempting

LA LINGUA E’ MOBILE

Lezioni condivise 97 – Appunti di storia della Linguistica

28 Feb 2015 @ 11:58 PM

Ancora una volta, trattando di linguistica, mi tornano in mente i pedanti saccenti, quelli che usano correggere ogni loro percezione di difformità rispetto alla lingua standard. Ciò stona particolarmente riguardo all’italiano, essendo stato ridotto, sia dalla retorica post-risorgimentale che dal fascismo, a idioma stantio, conservatore, oscurantista, imposto a scapito delle altre lingue territoriali che si è tentato di far scomparire. Eppure, dal punto di vista linguistico, il dialetto fiorentino e gli altri sono sullo stesso piano, hanno tutti origine dal latino e appartengono allo stesso dominio linguistico “italiano”, benché si manifestino fenomeni di differenziazione, indicati nella geografia linguistica dalle isoglosse (dal greco ísos = uguale e glossa = lingua), linee che segnano il confine tra fenomeni linguistici difformi.

Tornando ai pedanti, essi parlano senza avere idea di cosa sia una lingua e meno ancora gli studi linguistici; non che questa sia una colpa, ma non si predica ciò che non si conosce, e non mi riferisco certo alle piccole innocenti correzioni didattiche.

Riporto, solo per dare un’idea dell’oggetto degli studi, un breve saggio di storia della linguistica, una serie di elementi da sviluppare.

Senza evocare la torre di Babele, si possono considerare precursori in materia, il Primo trattato grammaticale islandese (XII sec.) e il De vulgari eloquentia di Dante (XIV sec.).

L’iniziazione scientifica allo studio delle lingue è dell’avvio del XIX secolo e ha origine dal Romanticismo; prima di allora vi era stato solo empirismo grammaticale, retorica, o speculazione filosofica.

Nel 1786 William Jones scoprì un rapporto di parentela storica tra sanscrito e greco-latino-gotico-celtico. E’ l’inizio degli studi di “grammatica comparativa” come li definì nel 1808 Friedrich Schlegel, che classificò le lingue in isolanti (prive di struttura grammaticale), agglutinanti (ad affissi) e flessive (lingue indoeuropee).

Con la pubblicazione del volume Sul sistema di coniugazione del sanscrito comparato con quello del greco, latino, persiano e germanico di Franz Bopp, nel 1816, nasce ufficialmente la Linguistica in Europa.

Friedrich Diez, intorno alla metà dell’Ottocento, adatterà il metodo storico-comparativo alle lingue neolatine: est (italiano e valacco, alias rumeno), nord-est (provenzale e francese), sud-ovest (spagnolo e portoghese). Il sardo si colloca in un dominio centrale, avendo caratteristiche miste.

A fine Ottocento il movimento dei neogrammatici (Lipsia) fisserà a tavolino le regole della linguistica comparativa. Ad essi si opporranno Graziadio Isaia Ascoli con le due Lettere glottologiche e Hugo Schuchardt con Intorno alle leggi fonetiche. Contro i neogrammatici. I quali negheranno che le norme linguistiche possano avere un’applicazione generale e assoluta come le leggi fisiche, sostenendo che sono le variabili tempo e spazio a determinarne e limitarne l’azione.

Ha origine così la geolinguistica e con essa gli atlanti linguistici, la prima rappresentazione cartografica dei fenomeni linguistici.

Il padre ufficiale della geolinguistica è Jules Gilliéron (1854-1926), svizzero, insegnante di dialettologia; egli pubblicò un atlante fonetico dei dialetti gallo-romanzi con un raccoglitore unico non linguista, Edmond Edmont, perché la conoscenza della materia non lo condizionasse. La ricerca si basava su 1400 domande ordinate per campi semantici e sul principio di equidistanza dei punti di indagine.

Nel 1916 con Cours de linguistique générale di Ferdinand de Saussure nasce lo strutturalismo; egli sosteneva che “il linguaggio è riconducibile a cinque o sei distinzioni o paia di cose”: la dicotomia tra linguistica diacronica e linguistica sincronica, le serie associative in absentia (memoria) e le serie di successioni in praesentia (asse sintagmatico, parole legate da un rapporto di continuità), sistemi semiotici il cui significato (signifié) è associato in modo arbitrario al significante (signifiant), l’arbitrarietà del segno linguistico (arbitraire du signe).

In Italia Matteo Bartoli (docente di Gramsci) e Benvenuto Terracini (docente anche all’Università di Cagliari ed esperto di lingua sarda) daranno vita nella prima metà del Novecento alla nuova linguistica spaziale, o neolinguistica, la quale punterà l’attenzione sui legami tra ambienti, classi o strati sociali, da un lato, e varietà sociali della lingua dall’altro, siamo agli albori della Sociolinguistica.

A partire dal 1950 assistiamo allo sviluppo di altri indirizzi di analisi linguistica: linguistica cibernetica o teoria dell’informazione; linguistica statistica o linguistica quantitativa; linguistica computazionale, studio del linguaggio con l’ausilio dei calcolatori; la pragmatica, che studia “i rapporti dei segni coi loro utenti”; la linguistica cognitiva.

Negli anni settanta nasce la Textlinguistik o Linguistica testuale, studio dei vari tipi di testo, scritti e orali, e delle operazioni cui vengono sottoposti. Il testo è ogni parte linguistica enunciata di un atto comunicativo che soddisfa sette criteri di testualità: a) coesione, b) coerenza, c) intenzionalità, d) accettabilità, e) informatività, f) situazionalità, g) intertestualità.

L’ibridità o testo misto è la mescolanza di testi e stili diversi: di forme diamesiche (secondo il mezzo o il modo usato per comunicare, orale, scritto, tv, stampa, dislocazione, ridondanza, paratassi, gerghi, regionalismi,  ecc.), di tecniche discorsive (citazioni, discorso riportato); di campi di conoscenze (tipi testuali: descrittivo, narrativo, argomentativo…).

Nello stesso periodo si sviluppa la Sociolinguistica. Uno dei precursori è certamente Noam Chomsky, l’esponente italiano più noto è Giorgio Raimondo Cardona. Essa non si occupa del sistema linguistico astratto, la langue (che attiene alla Sociologia del linguaggio), ma della parole, e di come essa varia nelle effettive realizzazioni linguistiche ad opera di parlanti ‘reali’, condizionati da molteplici fattori, il background socio-culturale, il contesto sociale attuale, la situazione comunicativa. Si sviluppa soprattutto intorno alla variabile diastratica (status, istruzione, età, sesso, social network, ecc.) e la variabile diafasica, legata ai vari contesti situazionali nei quali di volta in volta avviene l’interazione linguistica.

Il contesto linguistico ci permette di scoprire che una stessa lingua ha una moltitudine di registri (modi di esplicitarla) a seconda delle differenti variabili in cui po’ essere usata, le più comuni sono lo spazio e il tempo, le situazioni psico-affettive, cognitive o socio-culturali differenti: famiglia, lavoro, scritto, orale e via dicendo.

La Semantica, è una disciplina linguistica complessa, relativamente recente, si basa su queste due leggi: 1. Un solo termine-oggetto non comporta significazione; 2. La significazione presuppone l’esistenza della relazione tra due termini. E’ evidente che alla base di un significato vi è una relazione tra due termini, altrimenti cadrebbe il senso stesso di significato.

L’evoluzione degli studi linguistici ha comportato conseguentemente quella degli strumenti adoperati per questi studi, non esclusi gli atlanti linguistici e la ricerca sul campo.

Questo non sminuisce ovviamente l’importanza degli studi del passato. Resta una pietra miliare per noi sardi, il Dizionario etimologicodi Max Leopold Wagner, capolavoro della lessicologia; ma anche la carta corografica dello Spano, ove è proiettata la completa realtà linguistica della Sardegna, nonché le carte, prima in ordine alfabetico, poi onomasiologico (rapporto di tutte le denominazioni cosa-parola), basate sull’omogeneità per campi semantici dei dati.

Ad esempio, solo a Cagliari il tuorlo d’uovo ha almeno queste tre denominazioni: aravellu – revellu – arevellu).

L’analisi di tipo semasiologico è invece caricare una stessa parola di significati diversi. E’ il caso del concetto di testa/capo che divide il dominio romanzo: conca – testa; testu – vaso vuoto; caput -capo; cabu – gugliata/ago; capudu – bandolo; cabudiana – pecora guidaiola; benere a cabu – concludere. Nei dialetti italiani vale per: viso, masso, girino, cavolo, panna.

Le parole semanticamente omogenee sono in genere più antiche all’interno, di creazione popolare nelle aree intermedie, più recenti lungo le coste.

La geolinguista più attiva in Sardegna è Maria Antonietta Dettori, docente universitaria a Cagliari. Ha lavorato alle tassonomie popolari sottostanti al sistema dei cromonimi, degli ornitonimi e degli ittionimi in aree della Sardegna (principalmente negli stagni di Cabras e di Santa Giusta). Ha ricostruito il lessico tecnico di una tipica imbarcazione dell’area oristanese, su fassone. Ha collaborato al I volume dell’Atlante linguistico italiano, dedicato al corpo umano.

La Sardegna sta colmando lentamente la lacuna, unica nel dominio romanzo, di non disporre di un atlante linguistico. Vi era finora solo il “Saggio di un atlante linguistico della Sardegna” di Terracini e Franceschi del 1964, con dati dell’ALI, 59 carte su rilievi di Ugo Pellis.

L’ALiMuS (Atlante Linguistico Multimediale della Sardegna) sarà il primo atlante linguistico della nostra isola (progetto avviato nel 2004, presentazione di una prima parte dei risultati tre anni fa). Prevede 101 punti d’inchiesta, località di piccola o media dimensione, appartenenti al mondo rurale e per le aree urbane e suburbane, sono state incluse le tre città maggiori (Cagliari, Sassari, Nuoro) e poche altre, non lontane da queste ultime.

E’ previsto un questionario lessicale di circa 1300 concetti-parole per 18 campi semantici (es.: i fenomeni atmosferici, la natura, la misura del tempo, la fauna e la flora selvatica, l’agricoltura, la casa, i lavori domestici…) e un altro morfo-sintattico di circa 300 entrate.

Sarà un atlante di nuova generazione, parlante, ed essendo informatico non sarà necessario aspettare la fine di tutte le inchieste per avere accesso alla banca dati, che potrà essere arricchita man mano che esse verranno portate a termine; anche se i tempi si stanno rivelando lunghi quando quelli degli atlanti cartacei e sempre per mancanza di fondi.

(Linguistica sarda  – 11.4.1997) MP

Sassarese: pisano misto a ligure e sardo.
Gallurese: corso – toscano, con superstrato sardo.

Commenti (1)

LA LINGUA E’ MOBILE
1 #
Emily
etoday.ru/2015/03/sovremennaya-hudozhnica-milo-m….
terrell@mail.ru
188.232.75.216
Inviato il 02/03/2017 alle 22:10
привет

ORA DE MOSCIURA

Lezioni condivise 89 – Atlante linguistico mediterraneo

31 Mag 2014 @ 11:58 PM 

Tornando a parlare di atlanti linguistici nella consapevolezza della ricchezza culturale che contengono, come per tutti i lavori che è complesso far apprezzare a tutti, è triste pensare che nel mondo e anche vicino a noi, ci sia ancora chi pronuncia la parola dialetto in senso spregiativo, ci si vergogni di parlarlo o si parli queste lingue senza stimarle, per ignoranza patita o volontaria e peggio che mai per scelta politico/sociale, dunque con intenti assolutamente snob, tesi a diffondere sottocultura, dunque limitare la libertà di espressione e conoscenza.

Lo studio degli atlanti, la possibilità di consultarne le schede, apre mondi nuovi, crea prospettive inesplorate, nuove fratellanze, nuovo sapere, produce una serie di interazioni storiche, geografiche, antropologiche, economiche, perfino la pace tra gli uomini, giacché la guerra, la violenza, le armi, sono prerogativa degli ignoranti e di chi vuole mantenere l’ignoranza.

Dietro la formazione di un atlante linguistico vi è un lavoro colossale, sia preparatorio, sia esecutivo e di elaborazione, ma la risorsa che si forma non è fine a se stessa come si è detto, anzi essa è suscettibile di altri usi scientifici; una sorta di ricerca sul campo universale relativa ai temi indagati, utile a vari profili sociolinguistici.

Peraltro le isoglosse, i confini linguistici, mai netti sotto il profilo etimologico e semantico, e se anche lo fossero… permettono di pervenire alla conclusione che le differenze e le diversità sono valori da apprezzare, dunque uniscono e non sono oggetto di rivalità, ostilità, chiusura, ma offrono il piacere di conoscere l’altro.

In breve, la metodologia per la formazione di un atlante si basa sulle regole fondamentali della ricerca sul campo: si stabiliscono punti di indagine in base a criteri etnico-linguistici e anche la non raccolta di materiali in determinate zone è un decisione scientifica; si predispone un questionario con le domande da porre a individui scelti come campione; si mette al lavoro il raccoglitore, che deve ascoltare e analizzare le diversità fonetiche con metodo (si ricorre talvolta alla conversazione guidata con la registrazione, dunque pur basandosi su una griglia di argomenti precedentemente stabiliti, l’informatore viene orientato, pur sviluppando liberamente il suo discorso, a fornire le informazioni necessarie all’inchiesta); si passa poi alla lunga fase di elaborazione e scrittura.

I primi atlanti linguistici sono stati legati ad attività di terra, cioè hanno riguardato zone interne, pertanto la decisione di realizzare l’Atlante Linguistico Mediterraneo, dunque relativo a zone costiere, è stata una novità, soprattutto perché è stato il primo atlante linguistico ad aver preso programmaticamente in considerazione lingue e dialetti di famiglie linguistiche diverse. Cosa poteva esserci in comune sotto il profilo linguistico tra paesi che si affacciano sul Mediterraneo? La tesi dello studio, piuttosto scontata, era che nel corso dei secoli ci fossero state interferenze tra le varie lingue costiere e di ciò si suppone non abbia ragione di dubitare neanche il profano.

Per diffondere i risultati nell’immediato, man mano che il lavoro procedeva si pubblicò un bollettino; era chiaro che il lavoro sarebbe stato lunghissimo. Il primo numero del bollettino ha pubblicato il questionario, non troppo vasto, suddiviso per campi semantici uniformi. Una trentina di raccoglitori, esperti di linguistica, hanno selezionato (tra il 1960 e il 1972) in 165 località costiere, la trascrizione fonetica di circa 850 termini relativi al mare, attualmente raccolti in volumi. Il lavoro ha trovato parecchie difficoltà e si è fermato per qualche tempo.

Questo lavoro non ha certo potuto prescindere dal linguaggio della pesca, che per ovvie ragioni è anche quello che ha avuto più opportunità di interazione anche ai giorni nostri.

Il linguaggio della pesca, tecnico, usato esclusivamente dagli addetti ai lavori, presenta dei risvolti molto particolari, riguarda ad esempio le stelle, non tanto per l’orientamento che è desunto dalle coste, dalle colline sul mare e altri riferimenti di terra, ma proprio per l’attività della pesca in quanto tale.

Pare che allo spuntare di alcune stelle il pesce faccia dei movimenti ripetitivi che per questo favoriscono la pesca.

Secondo una testimonianza di pescatori siciliani, verso le 23 sorge la stella “U’ vastuni” (che mutua verosimilmente il nome dalle rete che si usa in quella circostanza, altrimenti detta paranza, rete a strascico) e il pesce sale dal fondo facilitando la pesca. Questa tesi sostiene che il pesce è attratto dal mutare della luce, argomento controverso, perché forse è più opportuno pensare all’influenza delle maree, legate tuttavia alle fasi lunari.

Il fenomeno della stella U’ vastuni pare si ripeta allo spuntare dell’Orsa maggiore o A’ puddara (le sette stelle), al quarto di luna (u’ quartu), alla vigilia della luna piena (prima de la chinta), il giorno stesso (supra chinta, quinta fase lunare) e l’ultima sera prima della luna nuova (spariluna). Nei primi giorni successivi alla luna piena (ruta chinta) pare che il pesce sparisca dalla circolazione.

Ma non c’è uniformità di vedute, altre testimonianze infatti individuano l’ora di mosciura, cioè quando non di vede un pesce in circolazione, alle fasi di quadratura tra luna e sole (primo e ultimo quarto), altre ancora parlano di ora mala per la pesca nel mercoledì, e che dire delle piume di uccello in barca. Più concreta è la paura del coniglio da parte dei pescatori, in quanto deteriora le reti.

Ho fatto cenno alle maree, che vengono influenzate dal ciclo lunare. I pescatori conoscono questa influenza sul mare e sui pesci, talvolta anche solo in modo meccanico e naturalmente tutto ciò si riflette sulla lingua.

Il ciclo lunare per me è stato sempre qualcosa di molto complicato, anche se in realtà non mi ci sono mai soffermato con intenti mnemonici, forse è la volta buona.

Una fase lunare, da luna nuova a luna nuova, cioè da quando la luna riprende a crescere, dura 29 giorni, 12 ore e 44 minuti. Questo tempo è diviso in otto fasi (circa 3 giorni ciascuna): luna nuova, falce crescente, primo quarto, luna crescente, luna piena, luna calante, ultimo quarto, falce calante e si ricomincia con la luna nuova.

Le maree, variazioni periodiche del livello delle acque, si verificano ogni 12 ore e 26 minuti e derivano dall’attrazione gravitazionale di luna e sole su esse. Ogni 24 ore o poco più si avranno due alte maree e due basse maree a intervalli di poco più di sei ore l’una dall’altra; esse ogni giorno si sposteranno di circa un’ora rispetto al giorno precedente, così che in circa una settimana a una alta marea, la settimana successiva, corrisponderà una bassa marea. L’alta marea si verifica quando la terra, nella sua rotazione, si avvicina contemporaneamente nei due emisferi opposti, alla luna.

L’allineamento di sole e luna provoca le maree, ovunque sia la terra. Si hanno le maree sizigiali (maree più alte e più basse del normale) due volte al mese, con luna piena e luna nuova.

Con sole e luna in quadratura (perpendicolari) le maree sono meno ampie (meno alte e meno basse). Anche ciò avviene due volte al mese, al primo e ultimo quarto. Le maree, sono otto come le fasi lunari, quattro normali, due sizigiali, due quadrature. La loro escursione metrica varia in base alla località geografica, fino a massimi di 18 metri e diminuisce man mano che ci si avvicina all’equatore.

Altre variabili per le maree sono il vento, il temporale, fonti di luce, la pressione atmosferica, le correnti.

La pesca si esercita preferibilmente durante le maree sizigiali, che portano pesci e il loro cibo nella acque meno alte. Le maree di quadratura sono le più sfavorevoli. In genere ciò vale sia sotto costa sia in alto mare, almeno per le specie che seguono comportamenti regolari. Ma le variabili sono talmente tante che è arduo pensare a delle regole valide per sempre.

Ho fatto un po’ il percorso del pesce: de limba in pisca, de pisca in retza, de retza in giassu, de pa(l)u in frasca.

(Linguistica sarda  – 14.3.1997) MP

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Ora de mosciura
1 #
giulia
chidicedonna.myblog.it
giuliapenzo@alice.it
79.44.168.124
Inviato il 14/05/2014 alle 20:37
http://www.repubblica.it/economia/2014/05/14/news/il_bonus_da_80_euro_anche_per_cassintegrati_e_disoccupati-86120135/?ref=HREC1-2
Che dici, 80 euro, sono da rottamare, come Ungaretti?

A LORO INSAPUTA…

Lezioni condivise 86 – Il lessico della pesca

28 Feb 2014 @ 11:59 PM

Qualcuno potrebbe pensare che io sia un pescatore incallito, visto che insisto a parlare di pesca, in realtà non ho mai pescato neppure un pesciolino, se non a mia insaputa, come usa oggi fare per qualsiasi pesca (di “onorevole” beneficienza); benché nelle verdi e turchine acque dei mari di Sardegna capiti di nuotare tra banchi di pesciolini, la canna da pesca mi è sconosciuta, le barche idem e per esaurire tutto il repertorio non pratico neppure la pesca subacquea, men che meno quella proibita con bombe e neppure quella volta che da bambino caddi non so come nella fontana dei pesci rossi, essi si salvarono tutti, mentre io subii i rimbrotti di mio nonno che dovette accompagnarmi a casa grondante acque…

La ragione è manco a dirlo scientifica, giacché la pesca, come altri tipi di attività (agricoltura, pastorizia, artigianato e via dicendo) si prestano ad avere un loro lessico o registro particolare, settoriale o, con la parola giusta, diafasico.

La settorializzazione della lingua è peraltro utilizzata negli atlanti linguistici, metodo cose-parole, anche per un confronto, soprattutto diatopico e diacronico, di espressioni delle stessa lingua che spesso presentano una particolare variabilità.

Voci del lessico della pesca:

Contatti tra lingua comune e mondo della pesca:

Le variazioni linguistiche nel tempo (diacronia) sono nel breve periodo (tempo apparente, opposto al tempo reale) impercettibili. A volte basta una generazione.

Facciamo alcuni esempi di variazioni tra generazioni contemporanee:

Parlare di tempo apparente ha senso perché i parlanti, per sfuggire agli italianismi, si rifugiano nuovamente nei termini antichi che non hanno più un vocabolo nella lingua moderna. In molti casi ora si ricorre a italianismi, infatti la parte più minacciata della lingua è quella tradizionale, tecnica.

Dalle voci suddette non ho scartato quelle che, anche in seguito a ulteriore ricerca, non mi sono ancora chiare e che ho indicato, per la ragione che qualche lettore potrebbe riconoscerle o in futuro io stesso, sia che si tratti di espressioni arcaiche, sia che io nell’apprenderle foneticamente le abbia trascritte in modo errato.

Ipotesi di ricerca sul campo sulla realtà linguistica:
E’ necessario stilare in primis un Piano di intervento per l’inchiesta sul campo.
Si procede in secondo luogo alla scelta degli informatori e alla formazione del campione di persone da intervistare, iniziando con qualche intervista di prova.
Si può quindi procedere con le interviste utili.
La fase successiva è la sistemazione ed elaborazione dei materiali:
• la trascrizione su schede dei materiali linguistici, etnografici, etnolinguistici, etnotesti
• la sistemazione materiali illustrativi (foto, schemi)
• la sistemazione di eventuali registrazioni
• l’elaborazione e l’analisi dei materiali
• il controllo finale e la presentazione dei risultati.

(Linguistica sarda  – 7.3.1997) MP

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A loro insaputa…
2 #
zenaida wyselaskie
frenchkiss.it/collection.php
luciaf@gmail.com
198.23.247.231
Inviato il 21/03/2014 alle 18:38
One way we might see ourselves as suppressing our anger is transferring unresolved anger onto situations that maybe do not warrant it.

A loro insaputa…
1 #
vitty
vitty.n@tiscali.it
84.223.32.159
Inviato il 01/03/2014 alle 22:02
E’ un post molto bello che sono venuta a leggere più volte. Aspettavo il seguito… ma sei passato ad altro argomento.
Il tema della memoria è un argomento molto importante, che non bisogna relegare nelle cose del passato…guai! Il passato non va dimenticato, da Lui si dovrebbero imparare lezioni preziose affinché nessuno mai più debba venire perseguito,per motivi di odi razziali.
Eppure è sotto gli occhi di tutti quanto sta accadendo in Palestina. Il mio cuore sanguina nel sapere che ogni giorno vengono uccisi uomini,ragazzi,bambini, donne. Solo perchè Palestinesi. Gli hanno tolto l’acqua,terreni,case. E nessuna voce occidentale si è alzata in loro difesa. Se qualcuno osa viene subito tacciato per antisemita. In questo caso dovremmo si gridare di più!!!! Io non sono antisemita,ma questa è una grandissima ingiustizia che non riesco a comprendere. Non riesco a comprendere perchè un popolo che ha tanto sofferto,debba a sua volta infliggere le stesse sofferenze.
Ho letto un libro che mi ha spiegato cosa voglia dire essere palestinese. Forse lo conoscerai.E’ una storia vera.Ti lascio il titolo:
Ogni mattina a Jenin di Susan Abulhawa
edito feltrinelli.
Ciao Indian, Ti torru gratzias per le tue belle lezioni! 🙂

MAVITELLU!

Lezioni condivise 83 – Pisca a su pa(l)u

30 Nov 2013 @ 11:59 PM

Lo studio della linguistica è affascinante sotto tanti punti di vista, uno di questi è certamente il rivelarsi di un magico mondo sconosciuto, percepire di possedere la chiave di un enigma che è la babele di linguaggi formatisi nel mondo, con tutti i loro significati, anche sociali, scoprire insospettate parentele, vedere come in un sogno masse di genti che si spostano e contaminano i loro linguaggi, ne formano di nuovi.

Dietro una lingua c’è sempre la storia di un popolo, una sorta di DNA che ha a che fare con il tempo, lo spazio, gli accadimenti, le situazioni, le persone, i popoli e la loro cultura e tante altre variabili, la sociolinguistica ha il suo fascino, ma lo ha anche l’idioletto, l’idioma di uno solo.

E’ fantastico scoprire dietro il lavorio del tempo come una o più parole, modificate dalla fonetica dei parlanti e da un’altra miriade di fenomeni, possano avere un’origine comune, o viceversa scoprire come una stessa parola possa cambiare significato nel tempo e nello spazio, perdendo del tutto quello originario. Ma ci sono mille altre curiosità piacevoli e interessanti nella magia linguistica.

Tra le variabili sociolinguistiche cui discorsivamente si è fatto cenno, è degna di interesse quella diafasica (dal greco dia phasis, mediante il dire), che riguarda i diversi contesti in cui si trova a esprimersi il parlante, dunque i diversi registri linguistici che si adoperano con il variare delle situazioni: in famiglia, a scuola, in ufficio, nei posti di lavoro e così via. Questa variabile comprende anche i linguaggi specifici che vengono utilizzati in certi ambiti e in particolari tipi di lavoro, quindi linguaggi tecnici, come possono essere quello tra medici, il linguaggio sportivo, culinario o i vari gerghi tipici di certe professioni o condizioni, come ad esempio quello giovanile.

Muta ad esempio la denominazione di parti del corpo o di organi, a seconda vengano espresse da una persona comune o da un medico.

Occorre dunque analizzare il linguaggio nel suo contesto d’uso; ergo, un professore universitario, si suppone non usi lo stesso registro linguistico durante una lezione e nella domus con i propri figli.

Nella lessicologia sarda abbiamo ad esempio i gerghi tecnici relativi ai ramai (Isili), all’uccellagione o alla pesca, in particolare a quella;

Soffermiamoci su alcune curiosità comuni agli ambienti della pesca storicamente esercitata negli stagni di Cabras e Santa Giusta.

Certe terminologie vengono usate solo nella peschiera, che è uno sbarramento apribile e chiudibile a seconda delle esigenze, costruito dall’uomo per intrappolare i pesci. A Cabras queste chiusure sono fatte ancora con le canne (cannitzadas), come avveniva nel medioevo.

Notiamo come intervengano parti del corpo umano nella designazione della realtà lavorativa.

Sa buca = bocca, rappresenta l’apertura della rete; sa conca = testa, sono le estremità apicali degli attrezzi che vengono adoperati.

C’è da dire che questo linguaggio è anche un po’ un codice segreto di cui gli stessi pescatori sono gelosi, pertanto ci troviamo spesso di fronte a espressioni enigmatiche: ad esempio, per sa cora de is bìddius (letteralmente: il ruscello o scia degli ombelichi) dobbiamo avanzare due ipotesi. Stabilito che is bìddius, nella fattispecie, sono i lembi di muscolo addominale del muggine, che si estraggono con la sacca delle ovaie, verosimilmente, per quanto misteriosa, l’espressione è riferita alla circolazione del muggine stesso.

Ma l’ambito più interessante di questo slang, riguarda i comandi che i pescatori si scambiano nel corso della pesca, comandi che vengono urlati dal puperi (uomo di poppa), recepiti ed eseguiti dall’equipaggio. Questi ordini, incomprensibili ai profani, in quanto pressoché privi di alcun riferimento contingente, rappresentano la sfida per il linguista, riuscire a trovare l’etimologia dei termini apparentemente privi di significato o che lo hanno mutato, e non sempre è possibile. Molto, ad esempio, si deve fare ancora per decifrare i pochi residui di sardo nuragico, comunque prelatino, sopravvissuto e nascosto nei toponimi e in pochi altri vocaboli.

Nella pesca a su pau (palu), che avveniva con la sciabica (una grande rete a sacco tirata a strascico), da poppa, come già detto, partivano tre ordini, come riportato nello schema:

Cun deus (con Dio) rappresenta in sardo una forma di saluto, andiamo con Dio; questa formula avvisa che la sciabica è stata calata e che la pesca può avere inizio con la caba (discesa), ovvero il giro della barca che trascina un’ala della sciabica e tende a circondare i pesci, cioè a formare una barriera tra loro e l’altra ala della sciabica.

Mavitellu! è il secondo ordine che su puperi urla, e al quale corrisponde la chiusura dell’arco della caba, dunque l’avvio della chiusura della sciabica, ovvero il congiungimento tra le due ali, con in mezzo il pesce.

A su pau! (al palo) significa che l’arco della caba è chiuso e invertendo la direzione di voga, si torna al punto di partenza, indicato da un palo.

Il termine “mavitellu” si è appurato provenire dai dialetti meridionali, mutuato nell’uso dei pescatori sardi per contatto con quelli con più grande tradizione del napoletano, Calabria e Sicilia. E’ dunque un prestito desemantizzato, che ha assunto un significato diverso da quello originario che designava l’ala della sciabica (mavitiello).

Adesso che la pesca a su pau sta cadendo in disuso, potrebbero perdersi anche i termini legati ad essa. Molti di essi sono usati nella pesca fin dal tempo dei fenici, una tradizione consolidata negli stagni e dove essa viene storicamente praticata. Termini a volte non documentati: la dedizione dei sardi per la pesca è relativamente tarda. La ricerca sul campo e gli atlanti linguistici rappresentano la salvezza anche per queste forme di patrimonio lessicologico.

(Linguistica sarda – 28.2.1997) MP

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Mavitellu!!!
1 #
vitty
vitty.n@tiscali.it
84.223.34.103
Inviato il 11/01/2014 alle 22:35
Caro Indian non si può non restare contagiati dal tuo entusiasmo nel leggere questo interessantissimo post.
Mi ha emozionato il paragone sulla ricerca della rivoluzione francese (che adoro!!!) e pensare di “ritrovarsi accanto Danton, Marat, Robespierre e Sanjust insieme.”
Per me sarebbe stata una ubriacatura di emozione, altro che “piccole cose! ”
Questo comunque mi ha fatto capire quello che devi aver provato nel trovarti di fronte un artista come Pinuccio Sciola.
Seguendo il percorso della sua carriera artistica,si capisce il grande amore che nutre per la sua Sardegna. L’ha abbellita ( se mai ce ne fosse stato bisogno,di certo l’ha resa più preziosa ) con degli splendidi murales ( grazie a Google ho potuto ammirarli ) facendo diventare San Sperate,suo paese natale,un museo a cielo aperto.
Anch’io anni fa,in un viaggio indimenticabile in Sardegna, ho avuto la fortuna di ammirare dei murales. Rimasi affascinata guardando quei dipinti che raccontavano storie di vita vera. Non ero dalle parti di Cagliari,perciò dubito che l’autore fosse Sciola. Però ti assicuro erano veramente belli!!
Quanto mi sarebbe piaciuto conoscere l’autore!
La scoperta che nell’isola di Rapa Nui sia stato trovato una costruzione simile a un nuraghe mi ha lasciato senza fiato! Mi ha indignato che non siano stati fatti studi più approfonditi per saperne di più. Finalmente c’era l’occasione per scoprire le origini di quei manufatti ,per mettere insieme i tasselli di una storia tanto affascinante quanto misteriosa . Non è possibile che abbiano ignorato una simile scoperta.
L’indolenza non credo sia riservata solo alla Sardegna.
(Un’isola peraltro che è impossibile non amare. Io vorrei tanto vederla in inverno. Drve essere magnifica! )
Ma temo sia un male comune che opprime tutta l’Italia. Basta vedere come vengono lasciati andare le grandi zone archeologiche…
Ma le emozioni più forti le ho provate nel sentire le pietre che suonano! C’è come una magia dentro quelle pietre che al tocco dell’artista rispondono con dolci melodie.
Come restare indifferenti leggendo le parole dell’artista?
“Caro San Francesco,
quando tu parlavi all’acqua, ai fiori, alle stelle…
la pietra in silenzio stava ad ascoltare.
Adesso, grazie all’intuizione di un artista e alla tecnologia,
la pietra ti farà ascoltare la sua voce, i suoi suoni…
Pinuccio Sciola”
Carlo Levi soleva dire che le parole sono come pietre. ora dopo aver scoperto,grazie a te,le pietre di Sciola,posso dire che le pietre parlano.
Grazie indian per avermi portato in questo mondo magico dell’arte. Continuerò a seguirlo. Un caro saluto, vitty.  (Il commento è evidentemente riferito all’articolo successivo, ndr)

CABORIS, PREXORIS

Lezioni condivise 79 – Rapporti tra lingua e cultura

31 Lug 2013 @ 11:59 PM

Aveva ragione Fernand Braudel a lamentare la scarsità di filosofi, direi di gente che pensa; qualità che non sarebbe male possedessero i politici, che razzolano un po’ come galline in confusione e hanno come unico scopo l’essere appunto politici, per loro quel che accade intorno è illogico, secondario… Ma loro sono “eletti” per cui non possiamo chiedere troppo. Potremmo però chiederlo almeno ai certi giornalisti dell’era berlusconiana, che per lavorare nel servizio pubblico possiedano almeno una laurea a pieni voti in filosofia, così, giusto per pensare con la propria testa e non con le emanazioni provenienti da palazzo Grazioli, modesta seconda casa, cui si prostrano ormai palesemente.

Pensavo a Braudel per ragioni meno basse, soprattutto riflettevo sulla fortuna che ho avuto a studiarlo. Si potrebbe dire che l’argomento che sto per trattare non rientri nel suo campo, non è così! Egli, in modo più concreto che teorico, è un rappresentante illustrissimo dell’interdisciplinarietà, concreto perché la mostra con la sua opera più che teorizzarla, per cui noi in essa leggiamo già palesemente, ciò che una teorizzazione relegherebbe nella vecchia concezione scientifica. Per questo a Braudel bastano poche parole: “…La vita è un tutto unico, che anche la storia deve esserlo e che non bisogna perdere di vista in nessuna occasione, neppure per un attimo, l’intrecciarsi infinito delle cause e delle conseguenze”.

La storia non sono solo fatti estrapolati dalla vita degli stati, ma è soprattutto la vita generale, momento per momento. Cosa che approfondita porta ad un progresso del marxismo, eliminando la tipologia classista, elitaria, per un’autogestione totale dell’umanità, non più sottomessa a elite di alcun tipo. “Se vogliamo studiare i fatti sociali, così complessi nel loro insieme, non serviamoci dunque di un sola fonte di luce”. La società non vista da una sola fonte o scienza, ma da tutte le scienze insieme. “Il nostro intento, invece è accendere tutte le luci contemporaneamente” (citazioni da F. Braudel, Storia, misura del mondo, Il Mulino, Bologna, 1998).

La linguistica è dunque funzionale alla storia e la storia alla linguistica e a tutto il resto, essa con le altre scienze contribuisce a illuminare la conoscenza.

Quanto accade per la formazione delle persone avviene anche per la lingua, che varia in base alle culture con le quali interferisce ed esse si esprimono attraverso la lingua locale, sia essa alloglotta, dialetto o vernacolo. Questo principio sostanziale è soggetto tuttavia a molte variabili, pensiamo all’imposizione di un dominio, di una cultura e di una lingua, dunque alle vicende storiche più disparate di alcuni popoli; ci sono situazioni estreme in cui delle lingue si sono estinte nel silenzio o nell’impotenza, nella negligenza o nell’ignoranza.

E’ la cultura popolare a modellare la lingua, la massa di persone che parlano e comunicano; il volgare alla fine prevale sulla lingua curiale e burocratica. E’ vero, oggi c’è la scuola, ci sono i mass media, ma hanno un po’ perso la loro “spinta propulsiva”, oggi che va ancora tanto lo slang brianzolo e i giornalisti parlano romanesco, con modalità più kitsch che culturali. E’ arduo districarsi in questa caotica babele ove sovente si confonde il genuino con il verosimile.

I bisogni del popolo modellano l’idioma, ne costituiscono i tipi, generano le differenziazioni semantiche, rendendo impossibili le traduzioni letterali con idiomi di culture materiali differenti.

Le pluralità lessicali sono indicative dell’importanza in quella cultura dell’oggetto da designare, gli atlanti linguistici sono un buono strumento anche per rilevare ciò, hanno dunque una valenza anche antropologica, storica e culturale.

Il pane è certamente un elemento fondamentale dell’alimentazione e della tradizione cultuale della Sardegna, infatti le varietà di pane e dunque le rispettive denominazioni, non hanno eguali nel mondo romanzo.

Uno stesso termine può designare diverse tipologie in diversi territori e viceversa una voce diversa può indicare lo stesso oggetto.

Alla Carta da musica, dell’italiano regionale di Sardegna, corrispondono su pani carasau, carasatu, sa pillonca, su pistoccu, su pan’e fresa, su póddine, fino al pani gutiau.

In ogni famiglia in passato aveva luogo almeno una panificazione settimanale. Il prodotto circolava a livello parentale e non c’era problema di varietà di linguaggio. Ora, con la piccola produzione industriale, vi è invece l’esigenza della denominazione unica che identifichi le diverse tipologie di pane, anche se potremo facilmente osservare che non è proprio così e non accade solo in Sardegna, visto che ad esempio il “cornetto” romano a Bologna lo chiamano “brioche” (!), la rosetta, michetta e via dicendo.

Il civraxu (pani de Seddori) in italiano regionale in su Cab’ e susu, viene chiamato spianata e ha, stante la diffusione regionale, un’infinità di varianti: chiàgliu, chiàlgiu, chiarju, chiarzu, chivalzu, chivarju, chivarzu, civàrgiu, crivalzu, crivaxu, crivazu, colacola, fruferedhu. Un riferimento italiano può essere il cruschèllo, ma solo riguardo alla qualità del grano, non per lavorazione e forma.

Sulla lavorazione del grano e la produzione del pane si potrebbe fare poesia, scrivere romanzi di alta letteratura, dovrò limitarmi invece ad essere il più possibile sintetico.

Dalla macinazione de su trigu (grano) si separano quattro parti di crusca/farina mediante setacciatura: prima si separa su póddini (crusca) più grosso dalla farina, successivamente si ottengono con sadatzus (setacci) più fini, su sceti, farina talmente leggera che vola (con la quale si fa il pane fine omonimo) e sa sìmbula (semola) che dà origine al cocoi, pane croccante; quel che rimane sul setaccio è su civraxu ed è una farra (farina) meno pregiata che dà origine al pane omonimo.

La fama del civraxu in Campidano ha ormai superato quello della farina che gli dà il nome, pertanto indica una forma di pane tondeggiante, non piatta, largo in media 30 cm, la cui farina non viene lavorata e pesa fino anche a tre kg.

Mentre il civraxu ha la sua tipica forma di costone collinare, su cocoi (pasta dura) cambia spesso forma ed è caratterizzato dai pitzicorrus croccanti (protuberanze puntute) di ampiezza variabile. Questo tipo di pane ispira la fantasia dei panificatori e se ne fanno di diverse tipologie e per varie occasioni: a tzichi (a forma di pulcino), a lóriga (circolare), cun ou (con uovo), a folla de fa (a fava), pintau, froriu, cocòi de Pasca, cocoiedhu afollitau (tutto pitzicorrus), stampau in mesu, de pitzus, in figura de pipia o àngiulu. Talvolta il cocoi, contiene il corpo in sceti, specie a Pasqua, ma Sceti viene definito un altro tipo di pane fine, di farina di prima scelta, che solitamente ha la forma di una grossa farfalla, lungo intorno a 25 cm e alto circa 10 cm., morbido. A volte le denominazioni si confondono con il cocoi e altri nomi, boledu, isete, in riferimento al fatto che si tratta della farina che vola mentre si setaccia o macina.

Un altro tipo di pane piuttosto diffuso in Sardegna è sa lada, pane morbido e fine, lavorato come il civraxu, stesso tipo di farina e lavorazione, la forma è quella di una baguette tondeggiante: si trovano sa lada a corpo unico, piuda, lúcida, stampada, lada cun casu, cun ollu, cun gerdas, ladixedha de parada, mustatzolu, costedha, agliola.

Vengono fatte anche con la forma del panino per antonomasia, ma piuttosto consistenti o anche con pezzature piccole farcite in vario modo.

Il gran numero di varianti deriva dalla vita agro/pastorale prevalentemente praticata in Sardegna fino a tempi ancora vicini a noi, sia per la grande consumazione di pane, sia per le scarse vie di comunicazione e dunque di interazione tra la gran massa di gente, alla conformazione del territorio che rende meno accessibili alcune zone, alle conseguenti diverse ondate e tipo di latinizzazione, alla presenza di diversi sostrati nelle varianti del sardo, al fenomeno di risardizzazione dei prestiti, una serie di variabili incalcolabili che hanno prodotto la lingua sarda di oggi, che in una situazione socio-economica mutata fa dei passi da gigante verso una koinè, tra le due o quattro varianti principali, con la missione per tutti della salvaguardia dei particolarismi grammaticali e lessicali.

Simile al discorso fatto per il pane è quello per i colori, anche più semplice: occorre considerare che il pane è un elemento vitale.

I colori non sono distinti allo stesso modo da tutti i popoli, che “tagliano” in modo diverso il continuum rappresentato, allo stato naturale, dalla gamma dell’iride. Per gli Antichi Romani caeruleus valeva per i colori che vanno dal verde-azzurro fino al blu e quasi al nero; purpureus indicava i colori dal rosso al viola e perfino l’azzurro. Dunque macrocolori che in antichità si rifletterono anche sul sardo. Il rosso nel sardo antico era un macrorosso che spaziava dal rosa all’arancione La gran parte dei colori in sardo è riferito a qualche elemento esistente in natura, un fiore, un frutto (cabori de arrosa, cabori de aràngiu, cabori de cinixu, de castàngia).

In passato vi era una scala cromatica diversa, più dettagliata e comunque variabile da cultura a cultura anche nella stessa Sardegna.

Tento uno schema della possibile differenza percettiva, accusata dalla lingua, tra intuitività dei colori nel sardo e nell’italiano, partendo dalla base dei colori dell’iride:

Per gli uccelli il discorso torna farsi complesso per lo stesso motivo suddetto, la diffusione della caccia e la necessità di stabilire delle denominazioni, che sono talmente variegate, anche per l’incisività in questo caso dell’idioletto, riscontrabile negli atlanti linguistici, frutto di interviste personali.

Dati che andranno poi elaborati dal linguista per dare valore ai vari termini.

La denominazione degli uccelli in parte si fonde con il nome dei colori.

Pettirosso = scrax(i)u grogu; fenicottero = ghente arrùbia; merlo = meurra, bicu aràngiu

Le pluralità lessicali ci sono quando la cosa da designare è importante in quella cultura, gli atlanti linguistici sono un buono strumento anche per rilevare ciò, hanno dunque un’importante valenza antropologica, storica e culturale.

(Linguistica sarda – 21.2.1997) MP

Commenti (3)

Caboris, prexoris…
3 #
vitty
vitty.blog.tiscali.it
vitty.n@tiscali.it
84.223.32.203
Inviato il 12/08/2013 alle 14:43
Quante notizie interessanti sul pane! A pensarci qualcuno le potrebbe usare per scriverci una bella tesi sulla nutrizione. Complimenti,bravo come sempre!!! 😉

Caboris, prexoris…
2 #
giulia
chidicedonna.myblog.it
g@alice.it
82.60.188.164
Inviato il 05/08/2013 alle 00:20
magna un toco de pan e stà sito… che co tutti sti pani non capiso pì niente!
Ti sfido a fare un racconto sul pane. Di 10 pagine… 🙂
alla decima pagina sono già cotta…
(tutta colpa del forno che con questo caldo mi fa abbandonare ogni mia volontà)

Caboris, prexoris…
1 #
jahira
xjahirax.wordpress.com
jahira@virgilio.it
79.25.17.189
Inviato il 25/07/2013 alle 15:06
la bibbia? E perche’ no 🙂 l’ho letta anche io, un po’ pallosetta in alcuni punti 🙂 ma sicuramente non pallosa come il corano 🙂

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